IOnonESISTO

“ La fotografia, come ci racconta spesso Ferdinando Scianna, è un linguaggio ambiguo e, allo stesso tempo, è uno straordinario strumento per indagare e interpretare la realtà. Quando impiegata con piena consapevolezza, è capace di entrare tra le pieghe più nascoste di ognuno di noi e di restituire un tipo di “verità” che difficilmente le parole potrebbero mettere in scena. Del resto, la consapevolezza è alla base del lavoro di Marco Rilli che, con questa serie di ritratti in bianco e nero, decide di affrontare questioni davvero complesse come i disturbi del comportamento alimentare. Il suo è un gioco continuo di specchi, di rimandi e di sospensioni. Moltissimi sorrisi e altrettanti oggetti d’affezione, a simboleggiare stati d’animo. Voglia di volare. Fiori e bilance. Matite e dichiarazioni scritte sul corpo. La sensazione è quella di essere cullati da un’altalena capace di superare il peso della gravità e della claustrofobia. IOnonEsisto raccoglie una sequenza di scatti molto coerenti fra loro, il cui senso vero è quello di declinare, attraverso una precisa impostazione narrativa, storie di persone che hanno deciso di affrontare un malessere interiore. Da una parte Rilli sceglie un approccio seriale: ritratti ravvicinati, mezzo busto e dettagli restituiscono all’intera sequenza la totale assenza di analisi e giudizi. Dall’altra, lascia la totale libertà ai soggetti di mettersi in posa. E’ la dichiarazione di voler raccontare le vicende del disturbo alimentare seguendo la regola dell’autorappresentazione. La galleria di ritratti prende forma velocemente. Potrebbe essere equiparata ad un album di famiglia, a un diario collettivo, scritto a più voci e a più mani con l’obiettivo comune di dichiarare che da anoressia, bulimia e più in generale di disturbi del comportamento alimentare si può guarire e che, per poter uscire da quella condizione, da molti vissuta come una prigione costruita attorno a sé stessi, non bastano la forza di volontà e il riconoscere il proprio comportamento come anomalo. Bisogna compiere un passo significativo: affidarsi agli altri e imparare a guardarsi dentro. Nei fatti, questa mostra invita al dialogo e ci conferma che i disturbi alimentari, che si piantano nella sfera privata come macigni, vanno ben oltre la sola percezione esteriore del corpo.

Quello di Marco Rilli è un lavoro non convenzionale, realizzato con l’obiettivo di depurare lo sguardo da facili preconcetti, mosso dal desiderio di restituire lucidità alle questioni trattate, di mettere in luce la necessità di rivelare una parte importante della propria intimità.”

Denis Curti

Il progetto

Il progetto IOnonESISTO ha lo scopo di far conoscere i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA), vere e proprie patologie che interessano un numero sempre maggiore di ragazzi e adolescenti, coinvolgendo l’intera sfera familiare. Si tratta di un viaggio emotivo attraverso il dolore di chi ne soffre in prima persona e di tutti coloro che ne sono inevitabilmente coinvolti.

Da qualche mese, a questo scopo, stiamo fotografando e intervistando persone che gravitano attorno al mondo di disturbi DCA: abbiamo ascoltato e fotografato pazienti, ex pazienti, genitori, familiari e partner, medici, psicologi, nutrizionisti... Attraverso la fotografia e le testimonianze vogliamo comunicare un forte messaggio che aiuti a riflettere sulle difficoltà, le paure, le angosce, il senso d’impotenza e di colpa e la sensazione di inadeguatezza di coloro che vivono direttamente o indirettamente queste patologie. Alla fine del progetto, iniziato a maggio e che terminerà a novembre, avremo incontrato, intervistato e fotografato circa 100 persone. Riteniamo sia molto importante divulgare e sostenere questo il progetto IOnonESISTO: per frenare la diffusione di questo fenomeno occorre infatti diffonderne la conoscenza, affinché sia più semplice intercettare precocemente i sintomi che indicano il malessere.

Di cosa stiamo parlando

Bulimia e anoressia sono termini noti più o meno tutti, ma ne conosciamo realmente i subdoli meccanismi? Se poi nominiamo Binge Eating o Night Eating Syndrome iniziamo a entrare in un mondo sconosciuto ai più, che comprende anche ortoressia, bigoressia, disturbo da ruminazione, picacismo: tutti disturbi legati a un anomalo rapporto con il cibo. Secondo la Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare (SISDCA), in Italia questi colpiscono ogni anno 8.500 persone. Il ministero della salute ha stimato che in Italia sono circa 3 milioni i soggetti affetti da disturbi alimentari. Otto-nove donne su 100.000 si ammalano di anoressia e 12 di bulimia. Tra gli uomini i nuovi casi di anoressia sono 0,02-1,4 ogni 100.000 persone e i casi di bulimia sono circa 0,8. La fascia compresa tra i 15 e i 19 anni è tradizionalmente quella più a rischio, ma negli ultimi anni l’età in cui compaiono i primi disturbi si sta abbassando. Sono poi sempre più numerosi casi di bambini che soffrono di anoressia o bulimia già intorno agli 8-9 anni ma anche i casi che riguardano gli adulti over 40. Negli Stati Uniti APA indica una prevalenza dell'anoressia tra 0,5 e 3,7 per cento nella popolazione femminile, a seconda della definizione di caso utilizzata, e tra l'1,1 e il 4,2 per cento per la bulimia. Il rapporto tra prevalenza nelle donne e negli uomini si attesta tra 1 a 6 e 1 a 10.

Non ho trovato dati certi, ma si stima che il lockdown abbia incrementato del 30% i dati sopracitati.

Aspetti tecnici

Dal punto di vista fotografico sono state fatte scelte molto nette, cercando di eliminare qualsiasi elemento di disturbo: foto in bianco e nero su fondale neutro e illuminazione semplice. Si è scelto di non sottolineare i segni che la malattia scolpisce nel corpo, per non rischiare facili spettacolarizzazioni, puntando invece alla persona in quanto tale: il racconto visivo si sofferma sui segni interiori di soggetti investiti dalla tragedia, includendo anche tutti coloro che lottano al loro fianco. Per questo, spesso, i soggetti sorridono: una scelta che non deve distogliere l’attenzione dalle testimonianze scritte, molto spesso drammatiche. Si è deciso cioè di fotografare le persone malate sotto una luce diversa, non volendo rappresentare la loro malattia, ma le loro personalità.

Ringraziamo per la disponibilità Villa Miralago, in particolare Federica, Giorgia e Biagio.

Info

Per mostrare il lavoro in fase di sviluppo sono state create:

• Un blog: https://iononesistoblog.wixsite.com/blog

• Una pagina Instagram : https://www.instagram.com/iononesistoblog/

• Una pagina facebook: https://www.facebook.com/IOnonEsistoblog


Segue una selezione delle oltre 100 immagini che compongono l’intero progetto. IOnonESISTO è una mostra itinerante , per info scrivimi

Valeria

Sono Valeria, soffro di anoressia nervosa. Tutto è iniziato a 13 anni, ho cominciato a ridurre la mia alimentazione, mangiavo solo uova sode o frittate, avevo eliminato completamente i carboidrati e in un mese avevo perso sei chili e a ciò si aggiungeva l’autolesionismo. Sono sempre stata molto brava a scuola ma il mio rendimento scolastico era calato drasticamente e i miei insegnanti hanno capito che c’era qualcosa che non andava, ma prima di parlarne con i miei genitori ne hanno discusso con me spronandomi ad impegnarmi maggiormente perché dovevo affrontare gli esami di terza media e loro ritenevano non valesse la pena perdere un anno scolastico. Ho ripreso a mangiare e a studiare, ho recuperato i chili persi e ho superato gli esami con ottimi risultati.

C’è stata una pausa, fino in seconda superiore, poi il disturbo si è ripresentato con il sintomo del vomito, per poi rientrare di nuovo.

In quarta superiore ho ripreso a star male, passavo da diete dimagranti da 1200 calorie giornaliere a momenti di abbuffate.

Ho abbandonato ad un certo punto queste diete, cercando di alimentarmi in modo normale, e ho ripreso i chili persi, ma il primo anno di università è crollato tutto.

Ho scelto di frequentare la facoltà di infermieristica; pranzavo nella mensa dell’ospedale, dove servivano un bis di primi, un secondo e un contorno e a volte anche il dolce, e sono aumentata di peso. Sono andata nel panico ed ho iniziato a fare iperattività e ogni tanto vomitavo. L’iperattività è il mio problema principale, che non ho ancora risolto.

Ho avuto degli alti e bassi, poi la situazione è precipitata e, al terzo anno di università, sono stata ricoverata per la prima volta al san Raffaele, Villa Turro. Ho iniziato anche ad abusare di lassativi al punto che non riuscivo più a reggermi in piedi e, in un momento di panico totale, dopo aver assunto diversi lassativi ho chiamato Villa Miralago.

Nel 2020, dopo aver terminato gli studi, sono entrata in struttura ed ho seguito un percorso durato sette mesi.

Durante la malattia le mie emozioni oscillavano tra momenti di felicità e momenti di tristezza, è stato un periodo caratterizzato da sbalzi di umore molto forti, fasi di depressione che si alternavano a periodi in cui mi sentivo onnipotente, potevo riuscire in tutto, ce l’avrei sempre fatta da sola, perché io non ero malata. Non mi ritenevo mai abbastanza malata per essere curata.

Era cambiato anche il mio atteggiamento nei confronti degli altri, mi ero chiusa in casa a studiare e non mantenevo più rapporti con nessuno. Ora sono single ma ho frequentato un ragazzo per otto anni e mezzo e lui mi è sempre stato vicino, inizialmente non comprendeva la mia malattia e mi incentivava a dimagrire pensando che con qualche chilo in meno mi sarei sentita meglio, poi ha realmente compreso la gravità del significato di “qualche chilo in meno”, dal momento che non vedevo mai un limite alla perdita di peso, era solo un precipitare nell’oblio.

Più perdevo peso e più mi sentivo forte, come se nulla potesse fermarmi e volevo sempre di più; nel frattempo la malattia aveva sostituito tutte le amicizie, era diventata la mia migliore amica: non c’era più nessuno, c’era solo lei che mi dava forza e mi permetteva di andare avanti.

Capire che la malattia non fosse così amica è stato difficilissimo, per comprendere che rischiavo la vita c’è voluto il sondino. Mangiavo solo frutta e verdura fino a non mangiare più nulla del tutto.

Con un sondino naso gastrico, attaccata ad una flebo e ad una pompa che mi alimentava ho compreso che la vita non era quella , che forse c’era un altro modo di vivere. Solo quando mi sono trovata veramente sul filo del rasoio ho capito che c’era ben altro oltre la malattia.

Valeria non esisteva più si era annullata per qualcosa di irraggiungibile, perché non basta mai un chilo in meno, si vuole sempre di più e chilo dopo chilo ci si annulla completamente, allontanandosi dal resto del mondo.

Io mi sono sempre sentita non compresa, non desiderata, non amata e ho tuttora un dolore molto grande, una ferita profonda che non riesce a rimarginarsi. Penso che gli altri questa ferita non l’abbiano mai vista e io con l’anoressia volevo dimostrare che Valeria stava davvero male, che Valeria non c’era più perché malata tal punto che di lei non rimaneva più niente. L’anoressia è stato un grido di dolore che nessuno ha udito.

Sicuramente la morte di mia nonna nel 2012 è stato un grande dolore per me. Lei mi ha cresciuto perché i miei genitori lavoravano e facevano molti straordinari, per me e mio fratello, e non c’erano quasi mai. Loro non mi hanno fatto mai mancare nulla, avevo tutto: la piscina, il pianoforte, la ginnastica artistica, il karate. Avevo tutto tranne l’essenziale, mancava la loro presenza, mancava l’amore e queste cose erano colmate dall’amore della nonna, il mio punto di riferimento per tutto.

Quando la nonna se n’è andata questo punto di riferimento è venuto a mancare, è una ferita che sanguina tuttora, un dolore che non ho ancora elaborato perché è molto difficile.

Quella fame che io sento in realtà è fame d’amore , di emozioni, di sentimenti. E’ fame di qualcuno disposto ad amarti per quella che sei e non per quella che vorresti essere o che fingi di essere.

Io credo che la malattia sia solo finzione, è trovarsi imprigionata in un corpo effimero, un corpo di bambina, senza ciclo mestruale, senza seno, pelle e ossa, con le clavicole sporgenti, con le costole decisamente visibili. Passi le tue giornate a contare le tue ossa e le calorie che ingerisci ed è tutto un inganno, non c’è nulla di vero, perché quella non può considerarsi vita. La vita è un’altra cosa.

Entrare in una comunità terapeutica è stato difficile, il mio percorso è stato costellato da alti e bassi.

Quando sono arrivata mi sentivo un sacchetto da riempire, mi sentivo obbligata a mangiare mentre io volevo toccare il fondo e loro non me lo permettevano. Volevo dimagrire ancora di più ma in comunità non mi è stato concesso, volevo arrivare a tutti i costi ad avere il sondino naso gastrico ma a Villa Miralago non è stato possibile.

Quando sono uscita dalla comunità stavo bene ma dopo due mesi la malattia ha bussato di nuovo prepotentemente alla mia porta, ho perso più di 12 chili e a quel punto mi hanno ricoverata in un reparto di medicina con il sondino e successivamente in un’altra struttura, dove ho trascorso due mesi e mezzo sempre col sondino perché non riuscivo più ad alimentarmi autonomamente.

Avevamo concordato un piano alimentare che contenesse il minimo indispensabile per permettermi di stare in piedi durante il giorno, e di notte la nutrizione enterale.

A Villa Miralago invece mi facevano assumere integratori perché io psicologicamente non riuscivo a tollerare il cibo solido ed è stato difficile anche accettare quegli integratori, io li “buttavo giù” solo perché dovevo farlo, per ingerire almeno quelle calorie indispensabili a tenermi in vita.

Utilizzare il cibo per distruggersi è la cosa più facile, perché il cibo è essenziale per la vita ma quando si vuole morire per raggiungere quella figura che manca, che se n’è andata, ci si priva proprio di ciò che ti tiene in vita.

Penso che per riuscire ad amare Valeria ci sia ancora molto su cui lavorare, mi rendo conto che non la amo ancora, mi riesce difficile raggiungere la parte essenziale di Valeria, la vedo ancora molto lontana, non riesco a capirla, a comprenderla, a prenderla per mano. Vivo ancora in quel corpo di bambina, mi peso ogni giorno e mi fa ancora paura vedere il numero della bilancia che sale, pur con la consapevolezza che per uscire da quel corpo di bambina questo numero deve salire.

C’è sempre questa battaglia con me stessa, vorrei restare in quel corpo da bambina ma sono cosciente che quel corpo non ti permette di vivere quella vita che merita di essere vissuta. Un adulto intrappolato in un corpo di bambino non può vivere, si perdono tutte le emozioni che si potrebbero vivere in un corpo da adulta.

Ho 24 anni e vorrei davvero cominciare a vivere perché con la malattia mi sono persa troppo, le feste, le serate, le pizze e il sushi con gli amici, l’amore, gli abbracci.

Per me un abbraccio è l’incontro di due anime che si cercano e si trovano per uno scambio d’amore reciproco.

Ci sono stati momenti in cui rifiutavo l’idea che qualcuno toccasse il mio corpo, non riuscivo a far sì che una persona entrasse in contatto con Valeria e soprattutto con il suo corpo.

A Villa Miralago ho lavorato tanto su questo e la psicomotricità mi ha aiutata moltissimo. Mi hanno dato la possibilità di esplorare me stessa, gli altri e me stessa a contatto con gli altri. Lasciarmi andare con gli altri mi ha aiutata anche a distaccarmi da quella amica che mi intrappolava in quel corpo da bambina.

Ora Valeria deve essere più forte, ci vuole tempo e pazienza ma è necessario abbandonare colei che ha sempre mentito fingendosi amica.

Vorrei dire a coloro che ancora si fanno soggiogare dalla malattia che non vale la pena di perdere tutti quei chili per poi doverli necessariamente riprendere, perchè non puoi vivere in un corpo completamente sfatto dalla malattia. Vorrei dire che ci sono tante emozioni da vivere, anche fare l’amore, entrare in contatto con un altro corpo, viverlo, goderlo e godere anche del proprio corpo. La malattia ti priva di queste emozioni intense, di cui nessuno dovrebbe privarsi.

C’è una vita che va ben oltre la malattia e se devi chiedere aiuto devi imparare a non usare il corpo, devi usare la voce, la parola, devi gridarlo perché non vale la pena rovinarsi la vita che è il bene più prezioso.

Ho portato con me un libro di Mandala perchè durante il primo ricovero al San Raffaele ho imparato a colorare, e non avrei mai immaginato o preso in considerazione di curarmi attraverso l’arte.

Dedicarsi del tempo usando i colori, esprimersi attraverso il disegno penso sia una cosa utilissima anche per combattere le ansie.

Ho portato anche una pigotta che posseggo da quando sono nata, è stato il mio regalo di benvenuta al mondo e rappresenta il mio corpo di bambina che ho ricercato e ho voluto mantenere attraverso l’anoressia, ma ormai è necessario liberarsene.

Ho con me anche un diario perché la scrittura è una cosa che mi ha sempre accompagnato, mi ha permesso di esternare le emozioni e i miei stati d’animo e di connettermi con quella bambina interiore che la malattia vuole zittire, quella bambina che ha voglia di giocare, che vuole vivere e mettersi in gioco. Attraverso la scrittura quella bambina gioiosa la si riscopre, la si fa rivivere perché in fondo è ciò che ci rappresenta.




Michela

Mi chiamo Michela e mi sono ammalata di anoressia a 23 anni, dopo la fine di una storia di 4 anni e mezzo con un ragazzo che mi picchiava.

I sintomi sono comparsi in quelle circostanze ma, se mi fermo a pensarci, alla base ci sono sempre state cose che non andavano, probabilmente da ricercare nella mia infanzia.

Non ne faccio una colpa ai miei genitori ma quando ero piccola lavoravano entrambi parecchie ore ed io ero sempre da sola, la loro assenza mi provocava solitudine e malinconia. Mia mamma poi è sempre stata una persona molto fredda e distaccata, non ricordo scambi di affetto fisici come carezze o baci.

I miei genitori mi hanno sempre insegnato a rispettare l’altro e non disturbarlo, così sono cresciuta nella convinzione che il non creare fastidio fosse più importante del comunicare i miei bisogni. Ad esempio da piccola mi capitava di andare a casa di mia zia e chiedere un bicchiere d’acqua, così mia mamma mi diceva “No, non disturbare. Berrai quando sarai a casa”. Non mi è mai stato insegnato a rispettare le mie necessità perché queste avrebbero creato fastidio ad altri, per questo mi capitava spesso di sentirmi in colpa per ciò che succedeva intorno a me.

Per i miei e soprattutto per mia mamma è difficile accettare che le cause della mia malattia siano da ricercare anche in ciò che ho vissuto da piccola, imputano il tutto alla fine di quella mia storia d’amore. Io sono invece del parere che non sarei rimasta tutto quel tempo con una persona che mi picchiava se fossi stata più forte: non avrei reagito per poi sentirmi una persona cattiva e non riuscire più ad accettarmi, non mi sarei chiesta se il motivo di tanta ingiustizia fosse colpa mia.

C’è da dire che prima di mettermi così tanto in discussione non sapevo neanche cosa fosse un disturbo alimentare, non l’ho mai cercato. Dopo la fine di quella storia però, ho iniziato a provare senso di colpa dopo i pasti e a ridurre sempre di più. Mi sono ritrovata completamente immersa nella malattia e questa cosa è andata avanti per più di 20 anni, con alti e bassi.

Il mio primo ricovero è stato a Villa Garda, nel 2000. Fu inutile, perché era limitato unicamente ad una cura alimentare: 3000 calorie al giorno per prendere peso e, se questo non saliva almeno di 1 kg a settimana, la dieta aumentava ancora. Era un veloce recupero fisico senza un lavoro interno, ci ho provato unicamente per far contenti i miei genitori ma dentro di me pensavo solo che una volta uscita sarei tornata a fare ciò che volevo. Non mi accettavo e non volevo fare del bene a me stessa. Mangiare era farmi del bene e tutto ciò che era un’attenzione nei miei confronti mi faceva stare male: prendere una vitamina, mangiare o curarmi era un atto d’amore verso me stessa e io non lo facevo perché volevo distruggermi, questa storia è andata avanti per anni.

Poi c’è stato l’incidente, un frontale con un camper. All’epoca pesavo 29 kg, per cui lo scontro mi aveva causato la rottura di femore, costole, clavicola, scapole e vertebre cervicali.

Mi avevano già data per morta e i medici avevano addirittura dovuto aspettare dei giorni per operarmi a femore e clavicola, il rischio era quello che morissi sotto intervento. Ho ricevuto circa 30 trasfusioni di sangue in quel periodo. Sono stata ricoverata per un anno: allettata per mesi, poi carrozzella, girello e stampelle, le ho passate tutte. In quel periodo ho reagito, mi sono detta che mi sarei dovuta rialzare in piedi.

Nel 2010 tra ospedale ed un altro ricovero a Villa Garda avevo recuperato bene, mi sembrava quasi di essere guarita ma anche in quel caso purtroppo avevo fatto un lavoro prettamente fisico tralasciando quello interiore.

Dentro di me avevo questa voglia di vivere e di guarire ma, non avendo creato le basi per affrontare la vita, alle prime difficoltà sono crollata di nuovo. Dopo una convivenza di due anni con l’uomo sbagliato ci sono ricascata, ritrovandomi nuovamente schiava della malattia.

Sono tornata a pesare 29 kg ma lavorando in ospedale circondata da medici ci è voluto poco perché qualcuno si rendesse conto della mia situazione. Il mio capo aveva segnalato la cosa al CPS e lì mi hanno obbligato a fare degli esami. Poco dopo essermi sottoposta ai vari accertamenti sono stata chiamata, quella mattina ero tranquilla dal parrucchiere e la voce al telefono diceva: “Abbiamo visto i tuoi esami del sangue, devi venire subito in pronto soccorso perché sei a rischio di vita e potresti morire da un momento all’altro”. Quindi sono andata in pronto soccorso, mi hanno ricoverata e il giorno dopo mi sono autodimessa.

Non avevo paura di morire, proprio per niente. Anzi, ridevo ed ero contenta perché era proprio ciò che volevo: non riuscivo ad uccidermi ed era come se essere arrivata a quel punto della malattia fosse un modo indiretto di arrivare alla morte.

Ricordo poi che già da piccola era come se dentro di me ci fosse un desiderio di trovarmi in una condizione simile: mi immaginavo in un letto di ospedale con le persone che mi volevano bene intorno a me pronte a darmi il loro amore. Nel mio immaginario credevo che se mi fossi ammalata mia madre avrebbe trovato il coraggio di avvicinarsi a me anche fisicamente e il disturbo alimentare era un modo per conquistare il suo amore.

Non volevo abbandonare la malattia perché mi teneva vicino alla mia mamma, vivevo con la paura che uscendo dall’anoressia avrei perso l’affetto ritrovato con i miei genitori, avevo paura di crescere e rimanere sola. Era una fame d’amore, non di cibo, sentivo di non meritare le altre persone e l’unico modo per meritarle era stare male.

Ai genitori dico di non fare mai una tragedia dei sintomi iniziali che manifesta il bambino, per lo meno non di fronte a lui. Ritengo che se mia mamma non avesse dato tutta quell’importanza a quel sintomo forse non sarei arrivata a quel punto. Se chi soffre di questi disturbi sente attenzione da parte del genitore, il sintomo diventa un mezzo di comunicazione, uno strumento. Invece, non dando inizialmente eccessive attenzioni ai sintomi, probabilmente la cosa tenderà a scemare perché il figlio sentirà che comportarsi così non servirà a nulla e cambierà strada. E’ come se la malattia si nutrisse dell’apprensione dei genitori che viene vista come quell’amore tanto desiderato dal figlio.

Io stessa cercavo amore ma durante la malattia non ricordo emozioni, ho passato anni chiusa in casa senza avere una vita. Lavoravo, tornavo a casa, facevo iperattività e dormivo per recuperare le forze, perché non ne avevo.

Le mie giornate trascorrevano nell’attesa del momento in cui mi sarei messa a dormire e non so nemmeno dove trovassi la forza, so solo che passavo molte ore a dormire sul divano.

Non era vita, non provavo più niente per nessuno: se moriva qualcuno non me ne fregava nulla, se qualcun altro si sposava non me ne fregava niente, il vuoto più totale.

Non riuscivo più a piangere né a ridere, ho passato 20 anni totalmente annullata. Mi ero isolata, non sentivo più le persone, andavo dritta per la mia strada e se qualcuno mi parlava neanche l’ascoltavo, come se fossi in una bolla che non mi permetteva di sentire niente, neanche il dolore.

La mia prima emozione è comparsa a Villa Miralago, durante uno dei gruppi di psicomotricità. Una delle educatrici, Cristina, mi ha abbracciata inscenando la situazione di una mamma che coccola una bambina.

In quell’abbraccio ho sentito il mio cuore che non avvertivo battere da una vita, mi è sembrata una cosa stranissima, mi sono detta: “allora ho ancora un cuore!”.

Da quel momento ho iniziato a credere che forse sarei potuta guarire perché in me c’erano ancora delle emozioni, anche se sembravano sommerse.

Mi ha aiutato tanto avere scambi fisici come carezze e abbracci con altre persone, lì ho iniziato a sentire l’altro ed è proprio il contatto con l’altro che mi fa trovare la forza di andare avanti, la carica di affrontare la vita. Senza l’altro mi lascio andare, mi annullo, se fossi sola e non ci fossero altre persone in questo mondo probabilmente mi mancherebbe un pezzo.

Le amicizie, ad iniziare da quelle strette in comunità, i nuovi incontri e gli scambi di idee mi hanno fatto venire voglia di tornare alla vita. Ho capito che sbagliavo ad isolarmi perché così facendo era difficile ottenere stimoli e trovare la predisposizione ad avere a che fare con gli altri.

Quando ero nel pieno della malattia pensavo di essere strana, sbagliata e diversa. Adesso invece ho imparato a capire che ognuno ha le sue difficoltà , non esiste una persona totalmente “sana” o perfetta.

A volte per strada vedo delle persone che pensano di stare bene ma mi rendo conto che c’è qualcosa che non va, che abbiamo tutti dei problemi ma bisogna trovare la forza di non isolarsi e permettere agli altri di aiutarci a vedere noi stessi.

Uscita da Villa Miralago sono stata da subito più predisposta ad avere interazioni, avevo il desiderio di stare con gli altri e sentivo che a qualcuno interessava ancora qualcosa di me, quindi ho riacquistato fiducia in me stessa.

Prima del mio ultimo ricovero sentivo di non meritare l’amore degli altri ma non attribuivo la colpa a loro, pensavo fossi io ad avere qualcosa che non andava, se gli altri non mi volevano bene probabilmente ero io a sbagliare. Questo forse anche perché durante la malattia il giudizio altrui non mi importava, per me il mio obiettivo era uno e andavo avanti per quello, l’opinione degli altri non contava.

Scegliere di non mangiare nella mia testa era dimostrare di essere forte, invece era il contrario. Pensavo di controllare la mia vita attraverso il cibo ma in realtà non era un segno di forza bensì di debolezza, l’unica ad essere forte era la malattia: quando stai iniziando a guarire lei ti ostacola, ti dona un finto senso di onnipotenza e tu quella forza faticosamente ottenuta hai paura di lasciarla perché non sai cosa ci sarà dopo, potrebbe essere anche peggio. Hai paura di perderti perché ti vedi solo nella malattia.

Per tanti anni la Michela che sta facendo questa intervista è stata solo la malattia e quella di oggi è la mia seconda vita. Non rimpiango gli anni che credevo di aver buttato via perché mi hanno insegnato molto e non rimpiango niente del mio passato perché se non avessi vissuto quello che ho vissuto non sarei la Michela di adesso.

Prima di Villa Miralago ero molto rigida, tutto doveva andare secondo i miei schemi. Invece qui ho imparato che non devi remare contro la vita, se la vita va devi farti trasportare e adattarti a quello che succede intorno. Se le cose vanno bene, bene. Se le cose vanno male si affrontano e ci saranno momenti migliori.

Non puoi andare contro quello che ti succede, certe cose vanno lasciate andare perché non possiamo modificarle o controllarle e non dobbiamo subirle come una colpa, non è colpa nostra.

Oggi mi sento diversa, due settimane fa sono andata al matrimonio di mia cugina al quale tutti pensavano che non sarei andata. Mi sono divertita tantissimo e mi sembrava di essere tornata a quando avevo 20 anni. Ballavo, ridevo…mi sentivo quella di tanti anni fa: piccolina, forte e con la voglia di stare con gli altri. Non una nuova Michela ma la stessa che ho riscoperto , però con una maturità e una consapevolezza diverse.


Noemi

Sono Noemi ho 26 anni e sono nel mio secondo periodo di malattia. Nel 2015 ho avuto una prima fase di anoressia nervosa da cui ero riuscita ad uscire almeno in parte, recuperando peso e risolvendo alcuni dei fattori che mi hanno portata ad ammalarmi; ma da un anno a questa parte ho avuto una ricaduta nel disturbo, le cui cause non mi sono ancora ben chiare.

A settembre ho iniziato un nuovo percorso terapeutico presso il Centro Ananke di Milano dove sono seguita da uno psicoterapeuta, da una nutrizionista e una psichiatra. Ho avuto due anni di pausa da quelli che erano i sintomi più eclatanti della malattia, sono rimasta normopeso e anche il mio rapporto col cibo era migliorato rispetto al periodo della malattia, anche se emotivamente sono stati due anni piuttosto pesanti. Non so se si possa parlare di depressione vera e propria, però c’erano momenti particolarmente difficili e bui che si alternavano a momenti di tranquillità ma non di felicità.

Il primo periodo della malattia è frutto di una dieta andata drammaticamente male, io cercavo di essere piacevole, bella, volevo piacere agli altri. Ero in una condizione di sovrappeso non esagerato, ma ero convinta che quella fosse una delle cause principali per cui non avevo mai avuto, fino a quel momento, esperienze amorose. Penso che inizialmente il mio malessere sia nato come desiderio di piacere sessualmente, di essere desiderata, per poi sfociare in una ricerca di piacere agli altri come persona nella mia totalità. E’ come se solo in questi momenti di malattia, solo come persona malata, io possa piacere agli altri, solo in questa condizione io possa essere una persona meritevole di affetto e attenzione.

Quando cominci a restringere provi una sensazione di potere e di controllo su tutto. Nel mio caso si tratta anche di non accettazione dei bisogni fisici che si trasferisce anche sui bisogni emotivi. Riuscire a continuare a vivere introducendo meno di quello che il corpo in realtà necessita è una riprova costante di poter sfidare la natura stessa e questo ti fa sentire addirittura onnipotente. Spesso trasferisci il controllo che acquisisci con la malattia su quello che senti di non avere sulla tua vita: quando vedi che la tua vita non sta andando come te la sei sempre immaginata, allora devi trovare qualcosa per farla andare come desideri. Sovente il restringere è piacevole e questo piacere lo colleghi al raggiungimento di un obiettivo, alla felicità e allora continui a restringere sempre di più.

E’ difficile rispondere alla domanda dove si trova Noemi in tutto questo marasma. Per la maggior parte del tempo il mio pensiero è che Noemi sia in realtà questa e non quella che sono stata nel periodo di benessere. Probabilmente Noemi è nascosta da qualche parte, in questo momento è come se questa fosse la Noemi reale e solo ora io stessi vivendo ed esprimendo la mia vera identità. Credo sia questa la cosa più difficile all’interno di un percorso di guarigione, riuscire a ritrovarsi, a convincersi nuovamente del fatto che tu non sei il tuo disturbo ma è il disturbo stesso a convincerti di essere parte integrante di esso.

A volte credo che la perfezione esista, perché se non esistesse non saprei a cosa aspirare. Sicuramente il perfezionismo è una cosa che mi caratterizza, fa parte della mia natura nel bene e nel male ed è qualcosa a cui tendo anche con il mio disturbo. L’ammalata perfetta, la paziente perfetta, la figlia perfetta, la studentessa perfetta.

Mi è piaciuta molto una metafora che ha usato il mio psicoterapeuta: “la vita è un oceano nel quale è stato versato del petrolio, dove il petrolio sta a significare il disturbo. E’ difficile ripulire l’oceano dal petrolio quando accadono questi disastri. E’ un lavoro difficile proprio perché le molecole vanno ad attaccarsi, a mischiarsi e tu pian piano devi riuscire a dividerle, devi riuscire a setacciare l’oceano”. Devi riuscire ad amare te stessa, devi riuscire nuovamente a prenderti per mano.

Credo che dove ci sia amore, affetto e speranza ci sia bellezza, quest’ultima è un insieme di questi tre elementi. E’ qualcosa che risiede nel profondo.

Il Tempo è lo scorrere della vita e per me è molto importante. In questo momento, in questa situazione, è molto forte la sensazione di star perdendo tempo importante per vivere. Sono certa che la serratura di questa porta che si apre alla vita possa essere aperta solo dall’interno, nessuno può fare il percorso per te, nessuno può curarti, solo tu puoi trovare la chiave e Noemi la sta cercando a tentoni, qualche volta sente la vicinanza di questa chiave e qualche volta la vede ma non la vuole prendere, altre volte la vede ma non ci arriva e a volte non la vede proprio.

La maschera è solo una facciata, è quella cosa che indossi per non mostrarti e nella malattia ne fai un uso costante, può essere anche la menzogna perché questo disturbo ti insegna a mentire. La maschera ti serve anche per nascondere i momenti bui e per esaltare quelli più sereni, la usi per portare all’estremo quel minimo di felicità e allo stesso tempo per cercare di nascondere il più possibile quanto stai male. La maschera è la malattia, è quella che ti fa sembrare diversa da quello che sei per piacere agli altri. Penso che sia arrivato il momento di toglierla, di buttarla via o almeno di provarci.

Questa malattia addormenta le emozioni positive e amplifica quelle negative e spesso provi piacere a navigare in questa negatività amplificata, addirittura la aneli e allo stesso modo ricerchi la restrizione. Trasforma i rapporti con le persone che ami colorandoli di malinconia. A mio fratello vorrei dire che mi dispiace molto averlo fatto soffrire, perché è una persona che non lo merita assolutamente. Lui non è il tipo che mostra apertamente i suoi sentimenti, ma so che soffre molto per questa mia condizione. Vorrei anche ringraziarlo per la sua “vicinanza lontana”, discreta. Il nostro non è un rapporto “pappa e ciccia”, ma la nostra vicinanza è mentale, è come un abbraccio emotivo che ti accoglie, sai che lui è lì. Mia mamma ha una grande forza che protegge la sua fragilità e comprendo quanto sia difficile per lei accettare la mia malattia, ma le mamme combattono sempre accanto ai loro figli. A lei avrei voluto risparmiare tutta questa sofferenza, vorrei dirle che mi dispiace e allo stesso tempo vorrei ringraziarla per avermi sempre sostenuto.

Io non temo la morte per me stessa, ciò che me la fa temere è la reazione che potrebbero avere gli altri più che la morte in sé.



Silvia

Sono Silvia, mi sono ammalata di anoressia quando ero molto piccola, avevo 9-10 anni, senza che nessuno se se fosse reso conto.

A scuola si usava il termine “anoressica” per indicare una ragazza magra, senza la consapevolezza che l’anoressia fosse una malattia.

Io sono sempre stata una ragazzina molto esile, da piccola ero molto schizzinosa col cibo, mangiavo solo pasta bianca scondita e un po’ di carne, solo a 10 anni ho cominciato ad assaggiare la pasta al pomodoro.

Durante la malattia mi vedevo grassa ma la mia fissazione era la pancia, che vedevo enorme. Quando avevo nove anni al centro estivo mi era stato detto da un gruppo di amichetti “ tu non puoi giocare con noi perché hai la pancia”, io quella pancia enorme non l’avevo ma da quella volta ho iniziato a controllare, senza farlo notare troppo, tutto quello che mangiavo. Avevo cominciato a farmi davvero domande sulla mia fisicità ed ho iniziato a dimagrire pian piano fino ad arrivare, verso gli 11 anni, ad aver perso moltissimo peso. Iniziavo a frequentare la scuola media e conoscendo le ragazze più grandi ho cominciato a vestirmi un po’ come loro.

L’estate successiva ero tornata al centro estivo e ricordo che le amiche di mia sorella mi dissero che quasi non mi avevano riconosciuto per la mia magrezza. In quel momento mi sono sentita la persona più potente della terra ed ho iniziato a dimagrire sempre di più. Avevo un controllo sempre maggiore su qualsiasi cosa facessi, anche se nessuno in quel periodo si era accorto che soffrivo di anoressia perché non era ancora una malattia di cui si parlava e non la si conosceva a fondo.

Nel 2012 queste malattie erano ancora poco considerate. I miei genitori si erano accorti che qualcosa non andava e mi portarono dalla pediatra, che dopo avermi pesato disse che ero sottopeso ma si trattava di costituzione. Nel primo centro in cui mi portarono i miei genitori, a Pavia, mi fecero fare dei test sui DCA che già avevo fatto innumerevoli volte e io segnai con le crocette le risposte che definivano che io non ero malata. Mi fecero la mia prima calorimetria e molti altri esami, per poi dire ai miei genitori che non si trattava di anoressia ma semplicemente ero un po’ sottopeso, ma io pesavo 32 chili!

Ho continuato a fare sport, nuoto agonistico, anche se non avevo più energie ma nella mia mente era inconcepibile che io non facessi almeno tre ore di sport al giorno, altrimenti non potevo permettermi di mangiare. Davanti ai miei genitori dovevo mangiare altrimenti si sarebbero accorti della mia malattia.

In realtà io non sapevo di cosa avevo fame veramente, ero entrata in un circolo vizioso; la gente continuava a dirmi che ero magra e questi commenti, che avevo sempre sperato di sentire, mi davano la forza per fare tutto.

Non mi sentivo accettata, non mi sentivo realizzata in niente. A scuola andavo molto bene ma per me non era abbastanza, quando prendevo un 7 mi disperavo perché era inammissibile che io prendessi un voto così basso, perché l’unica cosa in cui mi sentivo abbastanza realizzata era la scuola. I compagni mi dicevano che ero una secchiona, ma non sono mai stata bullizzata. Già da piccolissima sono sempre stata una persona estremamente precisa, i quaderni di scuola erano ordinatissimi, non c’erano cancellature, i libri non dovevano avere neppure un orecchio altrimenti andavo in paranoia. Probabilmente questo estremo controllo l’ho poi riversato sul disturbo alimentare.

Sono andata avanti così per parecchio tempo con un peso al limite, anche nelle gare di nuoto dove mi rendevo conto di ottenere pessimi risultati perché non avevo più forze. A 14 anni, nel pieno della malattia, ho cambiato persino sport scegliendo l’atletica, l’anno successivo pesavo 30 chili e nonostante non riuscissi quasi a stare in piedi continuavo imperterrita a fare atletica, fino a quando sono stata ricoverata d’urgenza.

Con la malattia ho imparato a mentire, fingevo di fare merenda ma buttavo tutte le merendine nei cestini che incontravo nel tragitto per andare a scuola, dicevo di aver mangiato ma mentivo anche su quello.

Un episodio che mi ha fatto crollare completamente è stata una verifica che avrei dovuto fare a scuola. In quel periodo avevo toccato il fondo, il mio cervello mi aveva salutato da un pezzo, non riuscivo proprio a studiare e mia madre mi disse di stare a casa visto che non avevo mai perso un giorno di scuola e l’avrei recuperata. Quel giorno sette miei compagni di scuola fecero la stessa cosa e l’insegnante si arrabbiò molto facendo una verifica difficilissima a quelli che l’avevano saltata. Quella verifica non la feci mai perché da qual giorno io smisi di frequentare la scuola.

In quel momento chiusi completamente la bocca, smisi di mangiare e feci la mia prima visita a Niguarda dove sfortunatamente non c’era un posto libero. Ero a rischio vita e la dottoressa stessa era molto preoccupata, disse a mia madre che doveva provarmi la pressione e controllare la frequenza cardiaca ogni due ore, anche di notte, e se il battito fosse sceso sotto i 40 avrebbe dovuto chiamare l’ambulanza, cosa che accadde la notte stessa perché avevo una frequenza cardiaca di 30 battiti. Il mio controllo era così prepotente che quando arrivò l’ambulanza mi chiesero se riuscivo a camminare fino alla barella, io non riuscivo ma dissi comunque di sì.

Mi portarono al Pronto Soccorso di Pavia e passai la notte attaccata ad un monitor che suonava incessantemente perché la frequenza cardiaca non saliva, la mattina successiva mi dissero che avrei dovuto mangiare qualcosa, in caso contrario mi avrebbero messo un sondino. Io non potevo, non dovevo mangiare, avrei accettato qualunque cosa pur di non mangiare. Non avevo mai visto un sondino e non mi resi conto che erroneamente mi misero un sondino per la lavanda gastrica. Pesavo 29 chili e loro non si resero neppure conto che era impossibile far passare quella cosa nel mio naso, svenni ma loro riuscirono comunque a metterlo, era come avere una spada che mi trafiggeva, mi faceva malissimo e mi feci un’intera sacca di nutrizione che scendeva lentissima perché ormai il mio stomaco era chiuso. Nessuno si era accorto, neppure in pediatria, che quel sondino non era un sondino da nutrizione. Dopo una settimana mi traferirono a Niguarda dove mi misero un sondino da nutrizione. Durante la malattia credo di averne messi almeno trenta.

Nonostante mi dicessero che se continuavo così avrei perso la vita io non me ne rendevo conto, non mi faceva paura, non mi interessava. Io ero diventata totalmente la malattia, non provavo più alcuna emozione, ero completamente apatica, una sorta di vegetale. Alla morte non ci pensavo proprio perché il mio cervello in quel periodo si era come spento, io ero ancora viva ma dentro ero già morta da un pezzo. Era tutto così irreale, vivevo in un mondo parallelo dove sembrava che io non esistessi, che non esistesse il mio fisico, che non esistesse neppure la morte.

Io non ho mai controllato le calorie degli alimenti per paura di ingrassare, come fanno molte ragazze, io proprio non volevo sentire nulla in bocca, non bevevo neanche. Tutto passava attraverso il sondino, anche i medicinali, perché in quel periodo non riuscivo a concepire che l’essere umano dovesse vivere mangiando, non accettavo di essere dipendente dal cibo. Mangiare per me non serviva a nulla, era solo uno spreco di tempo e di energie. Forse inconsciamente volevo scomparire perchè odiavo a tal punto la mia vita che non la tolleravo più. Vedevo i miei amici che uscivano, si divertivano, andavano in discoteca, mentre io ero ricoverata in un ospedale attaccata ad un sondino: era una vita assurda e forse era meglio che finisse.

Nel 2020 ho avuto il mio ultimo ricovero a Villa Miralago, da lì mi avevano traferito nuovamente in ospedale perché era da un anno che avevo il sondino e non toccavo né cibo né acqua, mi dissero che non sarei potuta rimanere un altro anno col sondino senza fare nulla, senza fare alcun passo avanti nel percorso terapeutico. In ospedale mi misero la nutrizione parenterale, era il periodo Covid e non potevo vedere nessuno, ero completamente isolata, è stato un periodo terrificante.

A quel punto, in un momento di lucidità, mi sono chiesta che cosa mi stavo facendo e decisi di cominciare a mangiare: è stato terribile perché non digerivo nulla, ero abituata col sondino ad avere alimenti pronti da assorbire nello stomaco. Il mio stomaco era in letargo da molto tempo.

Sono uscita dall’ospedale con un peso quasi accettabile di 38 chili e lì c’è stata la svolta.

Il mio cane mi ha aiutato tanto, ho capito che mi amava moltissimo e che senza di me non ce l’avrebbe fatta. Se dovessi venire nuovamente ricoverata sono certa che la mia cagnolina non se ne farebbe una ragione, non riesce a stare lontana da me. Lei mi ha aiutato a trovare la chiave e anche nei momenti in cui sono un po’ a terra, quando vorrei lasciarmi andare, la guardo e mi torna la forza per andare avanti.

Quando ero nella malattia non provavo niente e non mi rendevo neppure conto di far soffrire i miei genitori, con mia sorella è stato un po’ diverso perché lei è stata quella che per prima si è accorta della malattia. Lei ha dimostrato davvero tanta forza, ancora mi chiedo come abbia fatto ad andare avanti e starmi sempre così vicina.

Io anelavo la perfezione, ora mi rendo conto che è qualcosa di irraggiungibile, qualcosa di astratto. La perfezione è ogni essere umano che si accetta per quello che è. Questa malattia mi ha insegnato molte cose, mi ha fatto crescere tantissimo. La malattia mi ha insegnato che le difficoltà vanno affrontate, sono diventata una persona concreta, sicuramente non mi abbatto di fronte alla prima difficoltà perché se ho superato quel periodo posso affrontare tutto.

Nel corso della malattia non ho passato solo momenti brutti, durante i ricoveri ho vissuto anche momenti bellissimi. Ho imparato ad amarmi, lo so che mi vedo ancora tanti difetti, che ci sarà sempre qualcosa che non mi piace, ma ora mi va bene così, ora riesco ad accettarlo.

Oggi con me ho portato Bagheera, la mia pantera fatta all’uncinetto durante il primo ricovero a Niguarda: quando l’ho terminata ho capito che il mio impegno aveva portato qualcosa di bello, è un pezzo della mia storia.

Ho portato anche delle ciabatte apparentemente banali ma che mi hanno accompagnato in ogni mio ricovero, condividendo tutti i chilometri della mia iperattività: forse loro mi conoscono meglio di chiunque altro e alla fine quando ne sono uscita loro sono uscite con me.

Alle ragazze che ancora sono nella malattia vorrei dire, se decidessero di ascoltarmi, che questa malattia mi ha portato solo sofferenza, mi ha fatto perdere tante persone care e gli anni più belli della mia vita. Ho perso sei anni della mia adolescenza, dove potevo permettermi di fare tutte le stupidaggini che si fanno a quell’età. Pensandoci bene, cosa mi ha portato la malattia? Ad avere il fisico che volevo? NO. A potermi mettere il costume senza vergogna? NO, perché mi vergognavo comunque per la mia magrezza, per quelle ossa sporgenti.

Vorrei dire loro che vale la pena vivere, certo la vita non è facile, non ci saranno solo momenti belli ma sicuramente la vita è meglio della malattia. Solo ora ho consapevolezza che stavo vivendo una vita che non era la mia, ripensando a me stessa ammalata di anoressia non riesco a riconoscermi. Mi è capitato di vedere una mia foto di quando avevo il sondino, mi ha impressionato il mio sguardo, quegli occhi vuoti, tristi e assenti. Quella foto mi ha proprio angosciato e mi ha fatto capire quanto sia terribile questa malattia.

A mia sorella vorrei dire che mi dispiace tantissimo averla fatta soffrire perché lei non si meritava tutto questo, meritava di passare i suoi anni del liceo tranquilla senza avere sempre me nei suoi pensieri, le direi che le voglio un gran bene.

Ho partecipato a questo progetto perché vorrei che le persone capissero che “anoressica” non è solo un aggettivo, l’anoressia è una malattia.


Giorgia

Mi chiamo Giorgia ho 22 anni e sono la sorella gemella di Karin che è ricoverata a Villa Miralago per anoressia.

Mia sorella si è ammalata verso la fine del primo anno di liceo. Eravamo in classe insieme e ha iniziato un po’ come tutte le ragazze che stanno male, con una banale dieta che poi è andata via via precipitando. Il fatto che anche io avessi avuto stesso problema due anni prima, anche se ero più piccola ed ero inconscia di quello che succedeva, ha reso più facile riconoscere il problema di mia sorella, perché per me le dinamiche erano chiare.

Io e mia sorella siamo sempre state legatissime, perché oltre ad essere gemelle siamo sempre state insieme, scuola insieme, sport insieme, amicizie comuni, praticamente una vita in simbiosi. Però da quando è stata travolta da questa malattia ha cominciato a dipendere tantissimo da me, nel senso che lei ha messo la sua vita nelle mie mani, quasi come fossi io la mamma.

Con mia mamma si arrabbia molto e quindi in un certo senso si sono scambiati i ruoli.

In questo periodo di ricovero mia sorella mi manca terribilmente, come se mancasse una parte di me, però da un lato sono tranquilla perché ho fiducia nei medici che l’hanno presa in cura e soprattutto perché a casa ultimamente era diventata ingestibile.

Io non temo il giudizio degli altri in riferimento alla malattia però ho dovuto sopportare domande scomode e insistenti, giudizi non espressi verbalmente, tutti si sentono medici, psichiatri, psicoterapeuti pur non sapendo nulla e quindi giudicano, e questo sicuramente non aiuta.

Noi abbiamo fatto equitazione per otto anni, non ci è mai stata chiesta una determinata forma fisica, però penso che l’ambiente abbia influito molto nella malattia di mia sorella.

Ritengo che sia importantissimo parlare di questo problema nelle scuole perché la maggior parte sia dei ragazzi che dei docenti non si rendono neppure conto di cosa siano queste malattie e di quanto si possa stare male e non ne conoscono neppure l’incidenza e i numeri. La maggior parte delle persone pensano che siano solo capricci, un modo per attirare l’attenzione.

Non credo che mia sorella abbia subìto atti di bullismo, anzi è sempre stata accolta bene in tutte le scuole, nessuno gli ha mai fatto pesare il fatto che spesso non fosse presente.

Non so cosa possa aver scatenato tutto questo e la cosa che spaventa ancora di più è il fatto che se glielo chiedi neppure lei ti sa rispondere. Io penso che dietro a tutto questo ci siano stati problemi familiari.

Spesso io ho avuto paura di perdere mia sorella perché la sua malattia dura da diversi anni e lei ha passato più tempo in ospedale o in comunità terapeutiche che a casa.

Pur avendo avuto molta paura credo di essere l’unica che è stata ferma, dura con lei, rispetto a tutte le persone care che magari erano più morbide, più accondiscendenti. Questa è stata la cosa per cui mia sorella ha litigato e si è scontrata molto con me, ma alla fine mi ha ringraziato per questo.

Io ho perso il papà a nove anni, ho dovuto crescere prima del tempo e soprattutto in questa situazione in un certo senso ho assunto il ruolo di mamma, perché mia mamma era sempre molto angosciata e Karin si scontrava continuamente con lei.

Con la malattia di mia sorella non posso dire di aver perso la mia adolescenza, ma l’ho vissuta come fossi addormentata, mai serena, perché durante gli anni del liceo lei si è ammalata.

Questa malattia crea uno squilibrio, è come una bomba.

Io vorrei che mia sorella fosse tranquilla e impari a convivere con questo turbamento che ha dentro, perché io penso che dopo tutti questi anni non guarisci, devi farci amicizia, devi abituarti a vivere la tua vita con il malessere dentro.

Sì, penso davvero che da questa malattia non si possa guarire del tutto, però si può ambire ad una vita più che soddisfacente, ma guarire del tutto no.

Domani vedrò mia sorella dopo tantissimo tempo e, anche se vorrei dirle tante cose so già che questo sarà un problema perché so che non riuscirò a dire quello che voglio, allora da anni ho preso l’abitudine di scrivere. Arrivo sempre con la mia lettera preparata per lei un mese prima, quindi quello che le dirò sarà scritto su un foglio di carta.

Vorrei dirle di non farsi spaventare dal fatto che ha perso tutta la bellezza dell’adolescenza, perché a vent’anni puoi ancora recuperare, non è tutto perso. Anche se a volte lo pensi , è normale quando vedi tutti gli altri che vanno avanti e tu sei ferma.

Vorrei dirle di fidarsi di più delle persone perché la sua mente a volte ha pensieri contorti che l’ingannano, di affidarsi agli altri perché è l’unica strada. Vorrei dirle di imparare ad essere grata per quello che ha, perché ha la fortuna di avere amiche, poche ma buone che non l’hanno mai lasciata sola, di essere riconoscente per queste cose.

Io ho paura del rientro a casa di Karin, temo che possa ricadere. Penso che una volta uscita dalla comunità terapeutica Karin debba andare a vivere da sola, perché a casa ho paura che si inneschino nuovamente gli stessi meccanismi, quelli che non vanno bene. Spero che con un atto di coraggio capisca che anche se è un passo che fa paura è l’unica strada, per responsabilizzarsi, per crescere, per affrontare tutte le sue paure.

Durante la lunga malattia di mia sorella non mi sono sentita sola perché sono stata fortunata, ho avuto tante seconde famiglie, nel senso che non avendo un padre e il resto della famiglia spesso fuori per la malattia di Karin di fatto ero sempre sola, sempre lasciata un po’ allo sbaraglio, ma ho avuto la fortuna di essere accolta dalle famiglie di persone che mi volevano bene e mi hanno trattato come una figlia.

A dire il vero, anche se in tutto questo non mi sono mai sentita veramente sola, mi è mancata una famiglia unita, un punto di riferimento, la serenità, però io penso che si debba sempre guardare avanti, guardare le cose a 360°.

Mi sento fortunata perché non mi è mai mancato l’amore, però la serenità quella sì.

Penso che l’amore tra me è mia sorella gemella possa aiutarci a superare tutto, lo dico sempre, la speranza per la guarigione di mia sorella non la perderò mai.



Ennio

Mi chiamo Ennio, sono il papà di Giulia una ragazzina di 14 anni che soffre di anoressia nervosa dal settembre 2020 e vorrei testimoniare la mia storia in relazione a questa tremenda malattia.

E’ accaduto quello che non ti aspetteresti mai, ho ancora impresso nella mente una giornata di settembre assieme a mia figlia prima che venisse ricoverata a Niguarda dove penso di aver pianto come non ho mai pianto in vita mia. Ero seduto per terra nella camera di mia figlia, avevo Giulia sulle mie gambe e piangevo senza riuscire a fermarmi, singhiozzavo come un bambino.

Avevo timore a farmi vedere da lei in quello stato, ma non riuscivo a smettere, a fermarmi.

Ora sono un po’ più tranquillo, ma questa malattia è una cosa che non riesci a comprendere, ad accettare. Io ne ho passate tante nella mia vita, ho avuto anch’io le mie esperienze ma quando succede ai tuoi figli ti devasta, ti mette in ginocchio, vorresti che queste cose non accadessero mai.

L’abbiamo scoperto di punto in biano lo scorso anno, subito dopo le vacanze estive, ci siamo accorti che non mangiava più, beveva veramente poco e di conseguenza continuava a perdere peso.

All’inizio cercavamo di insistere con lei sul fatto che doveva mangiare perché queste malattie non le conosci e quindi non sai neppure come comportarti. Poi abbiamo scoperto tramite la psicologa che la stava seguendo che soffriva di anoressia.

Non vedendo miglioramenti e non sapendo cosa fare io e mia moglie abbiamo pensato di portarla all’ospedale Niguarda, ma più con l’intento di farla reagire, quasi una sorta di sfida come a farle capire “guarda che se vai avanti così finisci in ospedale” senza però avere consapevolezza della gravità della situazione. Giulia invece è stata ricoverata d’urgenza e solo in quel momento ci siamo resi conto della gravità, senza capire a fondo ciò avremmo dovuto affrontare.

Ti trovi catapultato in un mondo che non conosci, quello dell’anoressia, e ti trovi disorientato perché non sai come devi muoverti, cosa fare, cosa dire. Ti chiedi soltanto quando e se finirà quell’incubo, ti chiedi se finirà con la sua morte o con la sua rinascita e questa è l’unica cosa che speri. Vorresti che finisse tutto il più in fretta possibile.

In quel periodo ho avuto paura di perdere Giulia, mia moglie sta soffrendo ancora terribilmente, io ora sono un poco più sereno perché so che è in buona mani, seguita da persone competenti che conoscono questa malattia. Riesco a vedere anche i suoi piccoli progressi. Sai, quando vedi tua figlia che arriva a pesare 36 chili è terribile, come quando l’abbracci ma quell’ abbraccio non lo percepisci perché senti solo le ossa e provi un dolore immenso. Quando la vedi piano piano sparire senza capirne la ragione, cominci a farti domande, a chiederti dove hai sbagliato e cerchi di capire quali sono stati gli errori che hai commesso. Ti guardi dentro e fai un bilancio: sei stato un padre presente, accogliente, aperto al dialogo? Quando parlo con gli amici spesso sorridendo dico che ho cambiato più pannolini io che mia moglie e questo è difficile sentirlo dire da un padre, penso che mio padre non abbia mai cambiato un pannolino neppure ai miei fratelli.

E in tutto questo pensare non riesci a trovare l’errore, la causa e neppure un motivo valido che possa giustificare ciò che sta accadendo. Sicuramente qualche errore c’è stato ma tu non riesci ad individuarlo.

La sensazione più forte he provi di fronte a questa malattia è la paura, sei terrorizzato perché non riesci a vedere una luce per tua figlia e poi c’è l’impotenza di non sapere cosa fare per aiutarla.

Io da giovane ho avuto delle esperienze con la droga ma un drogato lo puoi fermare, lo prendi e nella situazione peggiore lo puoi legare per non farlo drogare, ma con una ragazzina che soffre di anoressia, che rifiuta il cibo cosa fai? non la puoi ingozzare. Poi la droga non serve per vivere ma il cibo è ciò che ti tiene in vita e allora capisci di essere di fronte ad una malattia terribile.

Io inizialmente ho fatto molta fatica ad accettare la malattia della mia Giulia, non perché non la volessi accettare ma perché non riuscivo a spiegarmelo, non ne comprendevo la ragione.

E questo non ha nulla a che vedere con il giudizio degli altri, che comunque esiste, ma dopo le mie esperienze di vita ciò che pensano gli altri per me non ha importanza alcuna.

A volte mi sono chiesto perché, con tutti i ragazzi e le ragazze che ci sono, tutto questo è successo proprio a mia figlia, perchè a te, quando ne hai già passate tante. Sai, se nella vita ti è sempre andato tutto bene, non hai mai avuto problemi allora questa cosa ci può stare, tiri indietro le maniche e vai avanti ma per me è diverso e allora fai veramente fatica ad accettare.

E finchè non te la ricoverano e ti dicono che tua figlia sta per morire, tu non riesci a capire quello che sta succedendo realmente, sovente a quell’età attribuisci erroneamente dei comportamenti all’adolescenza, alla lite con il fidanzatino, al diverbio con l’amica, a qualche antipatia a scuola, agli ormoni.

All’inizio con capisci le dinamiche della malattia e ti comporti unicamente da genitore, da genitore ignorante rispetto al problema, ti impunti per farla mangiare. Ricordo il giorno che l’ho portata a Niguarda, io dovevo accompagnare suo fratello Davide a Milano a comprare delle scarpe e lei voleva venire con noi e io le ho detto “se vuoi venire con noi mangi la bistecca altrimenti non vieni”. Lei si è seduta a tavola, davanti a questa bistecchina che alla fine non è riuscita a mangiare e io mi sono arrrabbiato moltissimo e le ho detto ”ora ti vesti, prepari la tua borsa che ti porto in ospedale” era quella sfida nei suoi confronti di cui parlavo prima.

Durante la malattia io non riuscivo più a riconoscere mia figlia, aveva eretto un muro tra noi, ma anche in quel caso io credevo fosse una cosa normale nel periodo adolescenziale, quasi tutti i ragazzini in quel periodo lo fanno e tu puoi essere il genitore migliore del mondo ma non riuscirai mai a capire cosa passa nella testa di un ragazzino.

E’ tutto molto difficile e in questi momenti capisci l’importanza di avere un rapporto sincero e bello con i tuoi figli.

La cosa che mi spaventa maggiormente in questo momento è che per seguire Giulia stiamo trascurando un poco Davide e bisogna fare attenzione perché queste cose possono capitare a tutti. Non c’è solo l’alcol, solo la droga, ci sono anche l’anoressia e la bulimia. Perché anche i disturbi alimentari sono delle dipendenze e forse ancora più forti perché di alcol e droga ne puoi fare a meno ma di cibo no.

Questa malattia ti insegna che c’è tanto da fare anche al di fuori della tua famiglia, perché in fondo siamo tutti una famiglia perché quello che provo io lo provi anche tu e lo possono provare tantissime persone ed è importante darsi una mano, sostenersi. Sicuramente è importante pensare alla propria famiglia ma anche al di là di quello che è semplicemente il tuo nucleo familiare, riuscire magari a salvare qualcun altro.

Indubbiamente questa malattia mi fatto cambiare prospettiva nei confronti della vita, le mie priorità sono sempre state i miei figli ma forse sta cambiando il modo di rapportarmi con loro e mi rendo conto che devi stargli accanto e accompagnarli in questa avventura che è la vita.

Questa malattia ti lascia un segno per sempre e sono convinto che quando mia figlia guarirà io porterò sempre con me la paura, perché quando questa malattia la attraversi ti rendi conto che tu non ce la farai mai a dimenticare. Penso che sia un po’ come la droga, l’idea non ti abbandona mai, io l’ho vissuta, non mi drogo più però questa cosa ti rimane addosso e questa malattia che ha colpito mia figlia a 13 anni, anche quando ne avrà 30, 40, 60 sarà sempre mia figlia e io non riuscirò a non aver paura per lei, mi accompagnerà sempre il timore che le possa succedere di nuovo.

Giulia è come me, ha tantissime insicurezze, io mi accorgo che nonostante abbia 50 anni queste mie insicurezze me le trascino ancora e questo mi fa pensare che lei potrà cambiare ma le sue insicurezze se le porterà dietro. Io penso che purtroppo lei camminerà a braccetto con questa malattia per sempre, dovrà solo avere la forza di domarla come io sono riuscito a contrastare la mia.

Questa malattia è molto forte perché ti costringe a combattere contro te stessa e questo è molto complicato. La difficoltà di questo percorso in una scala da uno a dieci è sicuramente dieci, però queste sono le cose che ti danno la forza di ammettere che hai vissuto una vita fatta di alti e bassi, di cose belle e terribili ma che alla fine hai avuto la forza di uscirne. Puoi dire di aver vissuto.

Se Giulia fosse qui le darei quell’abbraccio che mi è mancato quando non riuscivo ad abbracciarla, penso che l’abbraccio sia una cosa meravigliosa perché è un interscambio d’amore con l’altro, in questo periodo poi non ci sono più nemmeno le strette di mano, ci si tocca con il gomito ed è triste, perché l’abbraccio è tutto, è amore.

Gianmaria

Sono Gianmaria, raccontare di me non è facile. La mia malattia mi accompagna ormai da più di vent’anni. Per me non è stato facile accettare il concetto che dietro al mio modo di essere si nascondesse una malattia.

E’ cominciato tutto più o meno verso i primi anni dell’Università quando sono andato via da casa la prima volta. Venivo da una rottura con la mia prima ragazza, che mi ha lasciato una cicatrice profonda, da cui ho impiegato anni per riprendermi.

Questo evento, aggiunto al fatto che ero da solo, senza più il riferimento dei genitori e della vita a casa, mi ha condotto verso quella che io pensavo fosse solo una vita sregolata: ho iniziato a mangiare tanto, a bere tanto e a fare pochissima attività fisica; col tempo sono peggiorati sia il mio stato fisico che quello psichico.

Fino a 7/8 anni fa non sono stato consapevole di questa malattia, ignoravo cosa fosse un disturbo alimentare, nella fattispecie un Binge Eating Disorder; i medici che avevo consultato sino ad allora affermavano che si trattasse di obesità. Ho preso coscienza durante il primo ricovero a Villa Maria Luigia, dopo che il problema era emerso da un precedente ricovero, nel 2012, presso l’ospedale Auxologico di Piancavallo.

Dopo la diagnosi per me è stato difficile togliermi di dosso i sensi di colpa, mi sentivo responsabile di quanto accaduto per aver scelto un determinato stile di vita, per aver attuato una serie di comportamenti che mi avevano condotto in questa direzione. Ho impiegato parecchio per capire che non mi dovevo colpevolizzare.

Questi terribili sensi di colpa li provavo sia nei confronti di me stesso che nei confronti dei miei genitori. Fino alla fine del percorso universitario questa cosa non mi aveva creato grossi problemi perché ero riuscito a concludere i miei studi anche se non proprio benissimo e nei tempi giusti, avevo una vita sociale normale, con degli amici, e frequentavo molte persone.

Poi ho iniziato ad avere difficoltà nel mondo del lavoro; la nostra situazione economica non è molto stabile: è sempre stata caratterizzata da alti e bassi. Sapevo che farmi studiare lontano da casa aveva richiesto grossi sacrifici da parte dei miei genitori e mi sentivo quindi in dovere di restituire qualcosa. Non riuscendo ad ottenere i risultati sperati, ho cominciato a sentirmi in colpa. Sotto questo punto di vista non ho avuto pressioni dall’esterno: ero io il giudice più severo nei confronti di me stesso.

Ho iniziato a sentirmi inadeguato, e questa cosa non l’ho ancora superata, mi ritrovo a 40 anni senza un lavoro, senza una compagna, senza una casa.

Guardando i miei amici che sono sposati, iniziano ad avere figli e comunque hanno le loro vite mi sento un fallimento completo.

Sento che la vita mi è scivolata tra le dita, non riesco a capire come siano trascorsi questi ultimi 15 anni, e neppure che fine abbia fatto Gianmaria.

La solitudine è stata sempre qualcosa che da un lato mi spaventava e dall’altro invece ho finito per trovarla confortevole. Alla fine della storia sentimentale di cui ho parlato prima, sono stato molto tempo senza una donna e questa cosa mi ha fatto sentire solo, nonostante avessi altri contatti sociali e avessi degli amici.

Poi è arrivata la malattia e il cibo sicuramente aiuta a non sentire la solitudine, ti riempie tutti i vuoti, anche quelli dell’anima.

Sembra una contraddizione pensare che la cosa che ti permette di vivere tu la utilizzi per distruggerti. In realtà non so neanche se ero cosciente di utilizzare il cibo in maniera distruttiva, al pari di qualunque altra droga.

Fondamentalmente per me il cibo è una droga. Purtroppo ho una personalità dipendente a prescindere da quale può essere l’oggetto della dipendenza. Di dipendenze ne ho sviluppate tante, le mescolo, le cambio, smetto con una e inizio con un’altra. Non sono mai finito nel vortice delle droghe pesanti solo perché probabilmente avevo talmente paura degli effetti fisici a breve termine ed anche per il costo, per cui non mi ci sono neanche avvicinato.

Per il resto ne ho avute e ne ho, dipendenza dalle sigarette, dall’alcol, dal sesso, dai videogiochi, insomma tutti le dipendenze possibili. Anche l’amore in tutto questo è diventato una dipendenza, in realtà non era dipendenza dal sesso, era dipendenza affettiva, dalla persona con cui stavo, che amavo o che pensavo di amare, perché poi mi sono reso conto che non so se con questa malattia sia veramente possibile provare amore per qualcun altro. Forse era il disperato bisogno di aggrapparsi ad un affetto.

Un abbraccio può essere una cosa molto bella, una cosa in cui ti perdi, in cui trovi calore e vicinanza e può riempire in parte quel vuoto che hai dentro, il problema è che poi rischi di diventare dipendente da quell’abbraccio.

Amore verso me stesso non ne ho, adesso so di non volermi bene, so che il mio problema principale è questo, non riesco ancora adesso a fare qualcosa per me o a prendermi cura di me stesso.

Tutti mi dicono che per innamorarsi bisogna amare prima di tutto sé stessi, e allora io mi chiedo “ma allora io non ho mai amato nessuno?” Le uniche persone di cui ho la certezza che mi hanno amato e mi amano sono i miei genitori, le sole di cui non dubito. Loro sono anche le uniche persone che in qualche modo mi hanno tenuto in vita perché l’idea del suicidio l’ho sfiorata diverse volte, non l’ho fatto solo ed esclusivamente per l’impatto che avrebbe avuto sui miei genitori. Ho avuto dei momenti in cui sarebbe stato solo un sollievo quello di chiudere tutto, di dire “basta”.

Sicuramente è l’eccesso di sensibilità che ti porta ad affrontare in maniera scorretta gli eventi della vita. Me ne sono reso conto con le esperienze che ho vissuto durante i ricoveri, tutte le persone che ho conosciuto, colpite da questi disturbi, dimostravano profonda sensibilità. Evidentemente c’è un meccanismo di adattamento nell’essere umano che dovrebbe funzionare in maniera tale da farti sopportare i dolori, le sofferenze, i cambiamenti che ci sono nella vita; ma che in alcune persone particolarmente sensibili, non funziona adeguatamente. A quel punto devi trovare degli altri modi per sopravvivere.

So solo che dentro di me c’è un vuoto che io non riesco a riempire, in questo momento il cibo è una delle cose che riesce a farlo, molto spesso ho bisogno di fare ricorso anche alle altre forme di dipendenza. Il cibo è la cosa più semplice da procurare ed è anche la dipendenza più accettata socialmente: io non mi sono mai dovuto nascondere di più di tanto. Ho iniziato a farlo, con i miei genitori, quando ho aggiunto anche l’alcol; non mi sono mai nascosto agli amici o agli altri.

Poi anche qui subentrano delle storture, perché mangiare tanto e bere tanto in alcuni contesti è quasi un segno di forza. Forse in realtà nascondevo a me stesso in questo modo le mie debolezze.

Accade che nella vita si cerchi di compiacere gli altri oppure di essere quello che gli altri volevano che tu fossi e ogni minima critica, ogni minima osservazione ferisce, incide e fa sì che alla fine non sai più esattamente cosa voglia dire “essere te stesso”.

Per colmare questo vuoto bisogna trovare l’amore, gli abbracci, riconciliarsi con sé stessi, cercare cose positive che favoriscano le emozioni per trasformare queste dipendenze in qualcosa di costruttivo.

Ultimamente mi trovo ad avere grossi problemi con le emozioni perché non c’è più niente che mi faccia battere il cuore. In questi giorni alcune persone si stanno interessando ai miei quadri per comprarli, cosa che non avrei mai pensato potesse accadere sinceramente, dovrei quindi provare piacere, emozioni positive, mentre invece mi rendo conto che non provo quasi niente.

La pittura è semplicemente un linguaggio che uso per esprimermi, mi permette di mettermi a nudo senza espormi. E’ un linguaggio che va decriptato perché ognuno può leggerlo a modo suo, senza conoscere quello che io intendevo significare: lo conosco solo io e rimane mio.

E’ molto più facile esprimersi attraverso la pittura piuttosto che con le parole. Raccontare le emozioni mediante la parola è sempre piuttosto complicato, è difficile trovare le parole giuste, è difficile non vergognarsi. Parlare di sé stessi, delle proprie debolezze, delle fragilità senza vergogna, come sto facendo ora, è molto complesso.

Ho scelto di farlo perché ho pensato che fosse giusto dare un contributo a qualcosa che può essere d’aiuto ad altre persone che vivono la mia stessa situazione. E’ da quando sono all’interno di questo mondo che cerco un modo per aiutare oltre che me stesso anche gli altri, ho sempre provato il bisogno di fare qualcosa per il prossimo.

Uno dei progetti lavorativi che avevo, anzi che ho, anche se per il momento è tutto fermo, riguarda lo sviluppo di un centro di terapia occupazionale, di ergoterapia per persone con fragilità psichiche.

Vorrei che quello che ho passato e sto passando io possa servire ad altre persone che sono in questa situazione.

In questo momento è tutto fermo perché probabilmente una parte di me non ci crede più, non crede che sia possibile fare qualcosa.

Però vorrei dire a Gianmaria che ce l’ha davvero ancora una possibilità di ricostruire la propria vita, di formarsi una famiglia, di trovare soddisfazioni nel proprio lavoro; che esiste ancora questa opportunità, che non è troppo tardi.

Vorrei trovare il modo per ringraziare i miei genitori per tutto quello che fanno per me perché non lo faccio mai o non lo faccio mai abbastanza, e anche se a volte sembra che mi diano fastidio vorrei dire loro che non è così, è solo che io non trovo pace con me stesso e non riesco neppure ad essere in pace con loro.

Matteo


Sono Matteo e i Disturbi Alimentari mi accompagnano da quando sono nato perché sono sempre stato un bambino sovrappeso e successivamente obeso in modo più o meno grave. Nel 2011 ho superato i 200 Kg. Da quel momento ho iniziato un percorso che prevedeva la chirurgia bariatrica.

Ero in una fase depressiva, ho iniziato a parlare dei miei problemi con una psicologa ed è emersa la necessità di fare un colloquio al San Raffaele villa Turro dove ho preso consapevolezza che c’era qualcosa che non andava. Ero convinto di essere dinnanzi ad un dietologo, ma la professionista mi ha detto che secondo lei l’unica cosa che potevo fare con un 61 di BMI era un intervento bariatrico.

Non conoscevo nulla della chirurgia bariatrica e in quel momento ho capito di “aver rotto” il mio corpo: era accaduto qualcosa che non potevo più sistemare solo con la mia volontà, avrei dovuto affrontare un intervento chirurgico.

E’ stato difficile accettare questa situazione. Essendo un informatico che lavora nel campo dell’operation sono abituato, quando sorge un problema, a trovare una strada alternativa per risolverlo. Quindi il fatto di diventare grosso e non riuscire più a piegarmi ad allacciare le scarpe non era un problema, perché le calzavo già annodate: trovavo ogni volta degli escamotage.

Mi sono avvicinato alla chirurgia bariatrica attraverso un percorso multi-disciplinare perché l’obesità non è una malattia solamente del tipo “non riesco a chiudermi la bocca e continuo a mangiare” ma è multifattoriale. Sono quindi stato seguito da uno psicologo, un’endocrinologa, una nutrizionista e da tanti altri professionisti.

Nel frattempo avevo preso contatti con un’Associazione per persone obese ed ho iniziato a collaborare con loro, cosa che mi ha consentito di conoscere meglio la mia problematica e i Disturbi del comportamento alimentare, nel mio caso binge eating.

Sono stato in una clinica di Milano dove avrei accettato anche che mi tagliassero un orecchio pur di dimagrire, perché non riuscivo più ad accettare me stesso. Qualunque cosa mi avessero proposto per me andava bene. Mi suggerirono un intervento di by pass gastrico, che sarebbe stato effettuato da un esperto, in quanto era il secondo medico che ha introdotto in Italia la chirurgia bariatrica; io naturlamente lo accettai, per inesperienza o disperazione.

Sono stato operato e da 200 Kg. sono sceso a 90 Kg. Ma c’era un problema collaterale che ho scoperto solo successivamente, questo intervento creava grossi scompensi perché procurava fino a 20 scariche alvine al giorno con tutti i problemi che ne conseguono.

Ho resistito in questa situazione per alcuni anni e sempre tramite l’associazione che frequentavo abbiamo iniziato a parlare di chirurgia ricostruttiva. Non avevo ancora raggiunto il mio peso forma, o meglio, un peso ragionevole, in cui io stavo bene. La chiurgia bariatrica non ha il potere di una bacchetta magica, non si risolve tutto con l’intervento, occore poi seguire una dieta, sottoporsi a psicoterapia. L’efficacia dell’intervento dura dai 16 ai 18 mesi, poi, in parte, l’effetto si attenua, e, insomma, non si tratta di una passeggiata.

Ho subìito un’addomino plastica e anche in questo caso sono subentrati dei problemi. Mi sono riavvicinato alla chirurgia bariatrica quando pesavo 90 Kg. perché ormai erano troppi i problemi che quest’ultimo intervento mi stava creando.

Sono stato operato nuovamente, da una persona squisita, in un centro poco conosciuto ad Erba, questo intervento mi ha cambiato completamente la vita: sono riuscito a perdere gli ultimi 10 Kg. in eccesso, mi sentivo bene, non avevo più problemi di malassorbimento. E’ stato un periodo bellissimo perché avevo riscoperto anche la mia fisicità anche se questo ha significato rimettere in discussione tutto di me stesso, il mio matrimonio ed altre cose, perché per la prima volta non indossavo più quell’armatura che mi proteggeva dal mondo.

La mia imponenza infatti non solo mi proteggeva dal mondo, era un modo per dire “IO ESISTO” sia nella mia famiglia di origine che, successivamente in una relazione sentimentale “tossica”perché ciò che ha accomunato queste due esperienze è statala mia invisibilità. In famiglia non c’era spazio per me, dovevo subentrare al posto di mio padre per curare i miei fratelli più piccoli perdendo così la mia identità: il fatto di aumentare la mia stazza mi serviva per difendere fisicamente i miei fratelli, ma anche il dire al mondo che io esitevo.

Dopo tutte queste cure avevo perso tantissimo peso e non avevo più bisogno di dire al mondo “io esito” perché in quel momento io esistevo per davvero.

Successivamente ho iniziato una relazione con una persona che per me era tutto: rappresentava il mondo, per poi scoprire ancora una volta che si trattava di una relazione malata nel senso che io a lei davo tutto ma in cambio ricevevo solo le briciole. Si può chiamare “amore tossico, narcisismo” si può chiamare in mille modi, e nei miei confronti è nato il gaslighting, una sorta di abuso emotivo in cui venivo manipolato che mi faceva dubitare della mia percezione, facendomi credere che tutte le colpe fossero mie. Non potevo esitere per la sua famiglia, non potevo esistere per i suoi amici e per i suoi colleghi, non potevo esistere”ero invisibile”, ero tornato ancora una volta invisibile.

La mia è sempre stata un fame di accettazione, di affetto, di presenza perché alla fine non mi è mai importato “che cosa mangiare”, molto spesso chi raggiunge un certo peso lo fa senza interessarsi alla natura del cibo. Cerca il cibo più “cremoso possibile”, lasagne, tiramisù, cannelloni, tutti quegli alimenti che non necessitano di essere masticati troppo perché vanno giù da soli. Con una cucchiaiata ci si riempie la bocca e lo stomaco, senza provare il gusto del masticare, ci si ingozza fino a sentirsi sazi, provare un effimero benessere e poi, di nuovo, i sensi di colpa.

Dopo aver raggiunto con grande fatica e felicità estrema i miei 80 Kg,mi sono trovato nuovamente nella condizione di dimostrare che esistevo; questo ha comportato un nuovo aumento di peso perché vivendo male questa relazione sentimentale il cibo serviva a darmi un’identità, la sensazione di “esistere” e ad anestetizzare i miei sentimenti.

Si entra in un loop bruttissimo: si mangia per annebbiare i pensieri, ci si sente in colpa per aver mangiato e si torna a mangiare per anestetizzarsi. Alla fine sono tornato ad avere un peso importante.

Soffocavo le mie emozioni col cibo, non provavo felicità nelle relazioni ed era frustrante ritornare a comprare vestiti abbondanti.Quando arrivi a 80 Kg. dopo averne pesati 200 il tuo pensiero è “mai più” oppure tieni una foto di quando eri grosso dicendo a te stesso “per non dimenticare”. Poi ricominci a prendere peso, ti senti sconfitto quando devi aumentare la taglia, senti che questo “mai più” sta tornando, urla più forte di prima dentro di te, subentra il senso di sconfitta e la mancanza di gioia di vivere. Non vivi mentre cerchi di dire al mondo “io esisto”, ma nel contempo ti vergogni e ti nascondi dal mondo perché il tuo peso è tornato a rappresentare per te un problema che mostri agli altri.

Il giudizio è stato pesantissimo, quando pesavo 200 Kg. non uscivo più di casa se non per lo stretto necessario. Quando andavo al supermercato fingevo di non sentire i risolini, notavo che la gente mi additava, sentivo i bambini che dicevano ai genitori “guarda quello quanto è grosso, guarda che ciccione” .

Ho sperimentato tutto questo dall’infanzia. La mia prima dieta risale a quando frequentavo la prima elementare: mi avevano portato da una dietologa a Varese e dovevo disegnare le verdure che mangiavo, in realtà i disegni li faceva mia madre perchè io non sapevo cosa disegnare.

Durante l’adolescenza quando mia madre buttava del cibo nella spazzatura vi rovesciava sopra il detersivo per i piatti per paura che io lo mangiassi. Per me il cibo già allora era un’esigenza per annientare i pensieri e dare senso alla mia esistenza.

Poi mi sono sposato, ma non è stato un matrimonio felice. La sera, tornando a casa passavo dal Mc Drive, acquistavo dieci hamburger e li mangiavo nel tragitto poi, a casa cenavo nuovamente. A volte dicevo “vado io a fare la spesa”, compravo due vaschette di lasagne che mangiavo nel parcheggio.

Accomunavo il cibo al fatto di esistere ma in realtà questa era solo una forma di autodistruzione, nella speranza o di esistere o sparire del tutto. Mi è capitato di pensare “magari mangiando così tanto mi viene un infarto e ho risolto il mio problema”, non ho mai avuto paura di morire perché, anche a causa del lavoro che faceva mio padre, il tema della morte era presente in famiglia. Ho anche desiderato in alcuni momenti di morire, perché la mia era una “non vita”, e la la morte sarebbe stata solo la fine della sofferenza.

Sono arrivato a luglio minato da un pensiero autodistruttivo, dicendo “non ce la faccio più”, ho tagliato i ponti con questa persona che mi ha fatto del male e in quel momento ho deciso che dovevo fare qualcosa per me stesso.

Ho chiesto aiuto ad uno psicoterapeuta per analizzare nuovamente e completamente la mia vita. Ho cominciato a lavorare su “chi è Matteo”, ho ricominciato ad andare in palestra, a crearmi delle abitudini: mi alzo alle 5.30 alle 6.00 vado in palestra, ho acquisito consapevolezza e sto nuovamente bene. Adesso ho compreso che il mio corpo non mi rappresenta, quindi IO devo riportare il corpo a rappresentare ciò che sono. Quando conosco nuove persone, in ogni tipo di relazione devo trasmettere prima di tutto “chi sono” e poi “come sono”, ed è difficilissimo in una società come questa dove nella maggior parte dei casi l’importante prima di tutto è il “come sei” e poi vediamo “chi sei”.

La persona che mi ha tolto l’opportunità di mettere fine alla mia vita è stata mia figlia, lei non è stata cercata, anche se oggi è l’essere che amo di più al mondo, perché prima di finire sotto ai ferri il chirurgo mi aveva detto che ero sterile, si era però dimenticato di dirmi che perdendo 110 Kg. la cosa sarebbe cambiata.

Mia figlia Carlotta, il bene più prezioso, mi ha fatto comprendere che avevo perso il diritto di mettere fine alla mia vita, perché lei merita di avere un padre vicino. E’ una grossa affermazione, che non deve però rappresentare un peso per lei ma, un punto di forza perché mi ha ridato la vita. Quando ho toccato il fondo e ho pensato di farla finita ero un padre single, reduce da una terribile relazione

Mia figlia è la persona che mi ha ridato la vita, mi obbliga a vivere e a cercare Matteo. Io non mi sono ancora trovato, perché non è semplice superare sette anni di dolorosa dipendenza affettiva. Però ho capito che non ho il diritto di farla finita: Carlotta merita un padre che, come dice lei, risolve i problemi, un padre che c’è quando lei ha bisogno, che l’accompagnerà, a volte semplicemente mettendole una mano sulla spalla, altre volte ponendosi davanti a lei per proteggerla,a volte in disparte, pronto ad offrirle una spalla su cui piangere in caso di necessità.

Le dipendenze sono sempre difficili da sconfiggere, ma mentre si può cercare di evitare la droga, l’alcool ed il fumo, pur soffrendo di astinenza, non si può evitare il cibo perché è fonte di vita, per cui diventa più difficile apprendere a farne un uso equilibrato, attribuirgli il giusto valore di alimento e non quello di emozione.

Quello che mi ha insegnato il mio percorso nella malattia è che spesso l’obesità, come tutti i disturbi dell’alimentazione, sono considerati malattie di serie “B” mentre un tumore, una frattura o una semplice tosse sono riconosciuti come una malattia da curare immediatamente.

Il disturbo alimentare è visto come“non riesci a chiuderti la bocca e mangi troppo, oppure il contrario, non riesci a goderti un buon piatto di pasta perché hai l’anoressia”, non c’è comprensione per il malato, ma c’è invece colpevolizzazione, la persona è considerata come quella che non vuole guarire.

Sono ancora nella fase del “working in progress”, riguardo a l’alimentazione, a l’accettazione del mio corpo e la mia ricerca d’identità, lotto ancora quotidianamente contro la mia dipendenza, per imparare a convivere con le mie emozioni. Se sono felice rido e non mangio, se sono triste piango e non mangio, se sono arrabbiato non mangio; il lavoro più complesso è vivere le emozioni senza sostituirle col cibo.

Mariangela

Mi chiamo Mariangela e ho 22 anni. Sono a Villa Miralago da 11 mesi, questa decisione l’ha presa l’équipe che mi seguiva a Messina, però forse un po’ l’ho voluto anch’io, desideravo venire qui per essere aiutata.

Sono quasi tre anni che soffro di questa malattia, ho iniziato a rifiutare il cibo perché vedevo delle ragazze più magre di me, soprattutto a danza. Non erano tutte magre, ma quando il mio sguardo si posava solo su di loro pensavo che se fossi stata più magra sarei stata più brava nella danza.

Era un po’ che maturavo l’idea di fare una dieta per perdere qualche chilo, invece mangiavo solo di più. Quando stavo male dicevo a mia mamma che avevo fame e di darmi più pasta.

Ogni volta che mi guardavo allo specchio mi odiavo sempre di più. Un giorno non so cosa è accaduto ma mi sono detta “basta. Se non faccio qualcosa, rimarrò sempre così”.

Io ho sempre odiato lo specchio perché mi sono sempre vista un mostro ed anche ora quando passo davanti ad uno specchio continuo a vedermi in quel modo, penso che non avrò mai un buon rapporto con lo specchio.

Ho iniziato a mangiare sempre di meno fino a non mangiare più niente.

Più perdevo peso e più ero felice, mi sentivo bene ed ero convinta che fosse la cosa giusta. Dopo un po’ di tempo ho iniziato a star bene anche con gli altri, le persone, soprattutto i miei compagni di scuola, stavano volentieri con me, mi parlavano. Mi sentivo più accettata, anche se poi hanno iniziato a dirmi di smettere la dieta, di ricominciare a mangiare perché stavo diventando troppo magra, che di questo passo mi sarei ammalata e sarei diventa anoressica.

No, rispondevo “non diventerò mai anoressica, so quello che faccio”.

Io non ho mai avuto un gran rapporto coi miei genitori e in generale con la mia famiglia, non parlavo molto, non raccontavo niente ai miei. Non li ho mai sentiti molto vicini, non mi sentivo neppure parte della famiglia, non so, forse perché mi vedevo diversa da loro.

Mi vedevo come il brutto anatroccolo, loro erano i cigni. Mi sembrava che fossero tutti perfetti, e che senza di me sarebbero stati meglio, però non so spiegare il perché di questa sensazione.

Probabilmente perché mio padre era bravo a scuola, ha conseguito molte lauree, anche i miei fratelli a scuola erano bravi, anche quello dislessico riusciva comunque ad ottenere ottimi risultati. Io mi sono sentita inferiore a tutti, anche in altre piccole cose, se a loro piaceva fare una cosa che a me non andava mi sentivo quella diversa, quella sbagliata, allora mi isolavo, ma gli altri nemmeno mi cercavano.

Avrei voluto che fossimo una famiglia più unita, che ci fossero più manifestazioni d’affetto. Ora con la malattia li ho sentiti un po’ più vicini.

Mi sono sempre sentita sola, in famiglia, a scuola, ovunque. Le difficoltà maggiori le ho avute quando nella danza dovevo esibirmi davanti al pubblico, non mi sono mai sentita all’altezza, mi sentivo giudicata. Temo molto il giudizio altrui, mi sento giudicata su tutto e da chiunque.

In questa malattia provi solitudine, rabbia e tristezza. Sento tanta rabbia perché non riesco ancora ad accettarmi per come sono fatta, sia fisicamente che interiormente, non riesco ad accettare alcuni lati del mio carattere.

La malattia ti priva anche dei sogni, io fin da piccola ho sempre sognato di fare la ballerina, oppure la psicologa. Mi piacerebbe avere una famiglia e adottare dei bambini per dar loro una famiglia che non hanno.

Riesco a volermi un po’ bene solo nei momenti in cui esco con le amiche che non mi fanno sentire sola, che mi fanno sentire di valere qualcosa, di essere importante.

Penso che la bellezza sia “essere sé stessi, esattamente come si è”, la bellezza non è quello che c’è fuori ma come si è dentro. Ma questa cosa è come se valesse per gli altri ma non per me.

Quando sono arrivata a Villa Miralago ero tutt’uno con la malattia, non potevo esistere senza di lei, mi comandava, ma io volevo solo lei. Adesso comincio a distinguere un po’ la malattia da Mariangela. Prima la consideravo la mia migliore amica, colei che non mi lasciava mai, quella che manteneva ciò che prometteva: la magrezza, il corpo che volevo, la perfezione.

In realtà adesso non so più cos’è la perfezione, per me potrebbe essere una cosa per qualcun altro un’altra cosa ….. Ho sempre pensato che gli altri fossero perfetti anche con le loro imperfezioni, ma questo non valeva per me.

Per me il cibo è vita, è piacere, mi è sempre piaciuto mangiare da quando ero piccola, adesso credo che essermene privata per tutto questo tempo sia stata una delle peggiori cattiverie che potessi farmi. Per tanto tempo il cibo è stato un nemico che mi faceva diventare grossa, che mi faceva male.

Penso si possa guarire da questa malattia anche se forse non se ne uscirà mai completamente, si può imparare a conviverci, però alcune cose rimarranno per sempre.

Però la malattia mi ha insegnato ad apprezzare le piccole cose; ma soprattutto ho capito quanto fosse importante e unica la vita che stavo perdendo.

Non mi rendevo conto della condizione in cui versavo, mi hanno detto che se fossi andata avanti così sarei morta. Ho avuto paura e mi sono chiesta perché fossi arrivata a quel punto, ma la malattia era più forte.

Adesso vorrei essere un po’ più libera da tutto questo. Da quando sono entrata a Villa Miralago sto molto meglio, non ringrazierò mai abbastanza la mia équipe per tutto l’aiuto che mi ha dato. Un grazie non basta, neanche mille grazie bastano per quello che hanno fatto per me. Praticamente Villa Miralago mi ha salvato la vita e me l’ha ridata e ora vorrei tenermela stretta.

Vorrei riuscire a realizzare i miei sogni e a stare un po’ meglio con me stessa anche se questo è un periodo No ed io non sempre riesco ad accettarlo. Mi sembra di tornare indietro e il pensiero mi spaventa, mi spaventa di poter passare dalla parte opposta.

Ci vuole tanta forza e io non mi sento così forte, a volte per una piccola cosa crollo.


Alyssa

Mi chiamo Alyssa, ho 30 anni e soffro di anoressia nervosa. Ho deciso di raccontare la mia storia perché quella di cui soffro non è una malattia che si sceglie, e, se proprio una persona deve caderci, mi piacerebbe che potesse sentire che non è sola.

Io in realtà durante la malattia non ho avvertito la solitudine però mi sentivo incompresa, non riuscivo a capire se il problema ero io o era il mondo che era diventato strano.

Fondamentalmente nella malattia io ci stavo bene perché come mi hanno definito spesso,sono e sono stata un’anoressica anomala. Vivevo tutto, ogni minuto, sfruttavo ogni singola ora del giorno. Riposavo pochissimo la notte e tutto il resto della giornata era dedicata all’iperattività, alle uscite per divertirmi, per organizzare. Dovevo avere il controllo su qualsiasi cosa, più facevo e più stavo bene, era come ricevere una botta di energia.

A volte mi chiedo come ho potuto essere così attiva, continuando a restringere, a non mangiare. Ancora oggi non riesco a rispondere a questa domanda. In quel periodo mi recavo al lavoro a piedi o in bici, nonostante avessi già camminato molto all’alba; anche di notte camminavo, mi sembra di vedere un film se ci ripenso.

Alyssa dov’era? Hai presente Alice nel paese delle meraviglie? Ecco, in quel periodo io vedevo me stessa, piccola, in un labirinto al buio, sapevo che ero da qualche parte ma non riuscivo ad uscire. In quel momento io ero semplicemente la malattia che camminava.

Ero convintissima di avere tutto sotto controllo, solo adesso ho capito che invece era la malattia che controllava me. Nei primi anni ero consapevole della malattia e sceglievo di starci dentro nonostante i miei cari cercassero di aiutarmi ad uscirne. Per me non era il momento, mi andava bene così.

Ero un’unica cosa con la malattia e mi amavo proprio così solo ora mi rendo conto che non mi amavo affatto. Adesso sto cercando di amare Alyssa, ma non è facile perché spesso lei ritorna. Lei è forte, ma sto imparando ad essere più forte e a tenerla a bada.

Ho capito che per amarmi devo fare quello che piace a me e non a lei.

Però ognuno ha i suoi tempi, per giungere al successo, al traguardo, devo essere persuasa della mia decisione. Quando la vera Alyssa dirà sono stanca di tutto ciò, riuscirà ad abbandonare quel sintomo terribile.

Ora nel labirinto riesco ad intravedere Alyssa, ogni tanto vedo una piccola luce che mi indica la via giusta per continuare nel percorso. Adesso sarei disposta ad arrampicarmi pur di uscire dal labirinto in cui la malattia mi ha intrappolato.

Ho provato spesso ad interrogarmi per capire cosa mi ha portato in questa situazione, sicuramente hanno contribuito molti fattori, non saprei indicare quale sia stata la causa scatenante.

Soffro di anoressia da parecchi anni, la cosa è stata graduale. All’inizio facevo delle piccole restrizioni, mangiavo solo frutta a pranzo e quindi poteva sembrare una cosa normale, lavorando in fabbrica non si pranza con la carbonara, perché poi si torna sui macchinari. Poi mangiavo frutta perché era estate e quindi ci stava, riuscivo sempre a giustificare ogni cosa.

Successivamente ho iniziato a saltare un pranzo, una cena fino ad arrivare a pranzare o cenare una volta la settimana, massimo due quando andava bene.

Rinunciare al cibo mi faceva star male perché comunque a me piace sia mangiare che cucinare. Nei giorni in cui avevo stabilito di mangiare provavo una gioia immensa, sembrava che vivessi il resto della settimana aspettando quel momento. Un’attesa infinita aspettando il cibo, lo sognavo di notte, ci pensavo continuamente però non potevo concedermi questo piacere perché faceva ingrassare. La malattia mi imponeva di camminare, non potevo mangiare. Neppure ora riesco a spiegare la ragione di tutto questo.

Per me il primo lockdown è stato incredibilmente duro perché mi impediva di fare iperattività.

Scappavo nelle campagne, andavo dai miei amici che abitano nei paesi più lontani con l’alibi del gatto che era stato operato e aveva bisogno di un mangime specifico che si trovava, guarda caso, solo nei paesi dove vivevano i miei amici.

Ero diventata come Arsenio Lupin, mi inventavo di tutto pur di fare iperattività. Spesso sono stata fermata dai Carabinieri; io, senza farmi troppi problemi, mostravo la prescrizione del veterinario e loro non potevano dirmi nulla.

La malattia mi ha cambiata, mi ha incattivita. Ho allontanato tante persone perché le consideravo nemiche. La malattia distorceva la realtà,consideravo tutti bugiardi; anche le persone a me più care, come i miei familiari. Se loro tentavano di aiutarmi, di farmi mangiare, magari mia madre mi metteva nello zaino della frutta secca la giudicavo una bugiarda, desiderosa solo di farmi ingrassare.

In realtà l’unica bugiarda ero io, ho inventato un sacco di menzogne per saltare i pasti e per cattiveria. E’ bruttissima questa cosa, ma io dovevo in qualche modo far soffrire tutte le persone che mi volevano bene perché la malattia li vedeva come un ostacolo.

Un giorno la mia famiglia mi ha teso un’imboscata, mi hanno detto: “prima di uscire con le amiche stasera, passa da casa che ci sono anche le tue sorelle e ti abbiamo preso un regalo”,arrivata a casa trovo tutti lì, c’è pure il medico di base, volevano a tutti costi che io accettassi in quel momento di farmi ricoverare, che iniziassi a prendere sul serio la malattia. Ero così arrabbiata con loro, non ritenevo corretto il loro modo di operare, vedendoli ancor di più come nemici ho cercato di lanciarmi da una finestra e scappare. Mio padre mi ha afferrata da sotto le spalle per impedirmi di scavalcare il davanzale, io urlavo incurante che dalla strada mi sentissero: una scena da film.

La mia malattia è sempre stata caratterizzata dalla rabbia, era il sentimento predominante. Avrei spaccato ogni giorno qualcosa. Volevo urlare questa rabbia e spesso lo facevo, in campagna, senza motivo urlavo ma non riuscivo comunque a dare voce al dolore che avevo dentro.

Mi guardavo allo specchio e mi vedevo sempre più magra ma non mi creavo problemi, anche quando mi sono vista cadaverica, con le occhiaie, le ossa che sporgevano dal volto a me andava bene. Era una mia decisione, mi garbavano anche le mie foto.

Se si riesce ad ascoltare questa malattia e a guardarla con distacco si impara qualcosa. A me ha insegnato che cosa non voglio essere.

Io non sono una persona falsa, odio le bugie, preferisco di gran lunga la verità, non sono cattiva, mi fa male vedere le persone che soffrono, eppure la malattia mi faceva fare tutto l’opposto.

Ricordo perfettamente il momento preciso in cui ho deciso di curarmi, di chiedere aiuto. E’ accaduto mentre mi lavavo sotto la doccia, mi è caduta la spugna intanto che la passavo sulla schiena, la mia mano ha toccato il mio osso sacro; mi ha fatto schifo sentire quanto era sporgente. Mi sono guardata attentamente allo specchio, ho visto solo ossa e questo non mi è piaciuto.

Io sono arrivata davvero al limite, quando mi hanno ricoverata il mio BMI era allucinante, da mettersi le mani nei capelli, neanche la mia équipe sa spiegarsi come mai io sia finita in Camelia e non in Ginestra. Nel primo periodo mi nutrivano solo con i nutri drink, non potevo masticare nulla perché il cibo solido mi avrebbe fatto male. Il mio organismo era costituito solo da acqua, ero tutta liquidi.

Spesso, a casa, mi svegliavo con la tachicardia e pensavo “è arrivato il momento”, avevo paura che il mio cuore si fermasse all’istante. Anche la paura era inutile perché la malattia mi diceva “chissenefrega”. Quando il battito tornava ad un ritmo normale mi rimettevo a dormire e l’indomani riprendevo a camminare.

La vita è poter essere libera di fare ciò che desidero e non quello che mi impone la malattia; è non dover programmare la mia giornata sui passi da fare, sul controllo degli altri. Questa malattia ti costringe a rinchiuderti in una gabbia di cui tu sola hai la chiave e solo tu puoi decidere quando aprirla. Ora sto cercando di centrare la serratura, le misure le ho prese, mancano solo gli ultimi dettagli.

Non dirò mai che ho sprecato il mio tempo in quel periodo perché, anche se in modo distorto, ho vissuto tantissimo; non mi sono mai chiusa in casa, ho vissuto in un modo diverso, talvolta anche al limite. E’ stato un periodo strano, non ero veramente io, avevo distrutto completamente le mie emozioni che sto riscoprendo adesso qui.

La mia paura è di non riuscire a riemergere completamente, di non riuscire più a vivere come vuole Alyssa. Ci sono giorni in cui ci riesco e dei giorni in cui lei torna e mi chiedo “ma sarà sempre così?”o potrò tornare come quando ero bambina dove la mia unica preoccupazione era: oggi gioco nel campo di pannocchie o in mezzo al canalino?”

L’amore manca da tempo. Non sono mai stata una persona molto espansiva, nella mia famiglia non c’è l’abitudine a manifestare affetto, quindi sono cresciuta in questo modo.

Per me gli abbracci sono sempre stati momenti di imbarazzo, qui sto scoprendo che l’abbraccio è un modo per dire “andrà tutto bene”, “io ci sono”, “sono orgogliosa di te”,in un abbraccio sono rinchiuse tante cose. E’ molto bello, ora, cosa che non avrei mai fatto prima, mi viene voglia di chiedere un abbraccio, e non me ne vergogno.

In questo momento riuscirei anche ad abbracciare Alyssa perché ho davvero tanta voglia di abbracciarmi.

Durante la malattia avevo distrutto tutto, anche l’affetto per le mie sorelle. Per loro darei la vita, mi sono fatta tatuare anche le loro iniziali, allora però restavo indifferente nei confronti di quello che mi dicevano, e alle loro lacrime.

Adoro gli animali, mi vergogno ad ammettere che ero indifferente anche nei confronti del mio cane e del mio gatto, che sono sempre stati parte della famiglia. Avevo smesso di coccolarli, entravo in casa e li ignoravo completamente e per me questa cosa è assurda. Dimenticare che esistessero o dimenticare di dare loro l’acqua fresca per me è gravissimo.

So che la vita è là fuori, non temo di uscire ed affrontarla, mi spiacerà lasciare la comunità, però ho tanti progetti da realizzare. Non voglio sprecare il mio tempo, voglio ritrovare i sogni che avevo ucciso.

Prima in realtà avevo l’illusione di vivere, ma vivacchiavo e purtroppo mi davo parecchio all’alcol, credevo che quella fosse vita. Uscire, bere alcol, uscire, bere alcol, sbarellarsi e ricominciare il giorno dopo, una vita intensa ma completamente vuota. Uscivo ogni sera con gli amici per non restare in casa sola con i miei fantasmi, se capitava che non riuscissi ad organizzare una serata andavo al bar da sola o bevevo a casa.

Era solo una vita a metà, adesso voglio una vita intera e vera. Un “casa” dove tornare e stare bene, uscire e stare bene con me stessa, vivere tutte le esperienze che mi sono preclusa per molti anni.

Il rispetto per sé stessi è fondamentale, nel momento in cui rispetto me stessa riesco a rispettare chi c’è intorno a me. Prima era diverso, comportandomi male con me stessa mi comportavo malissimo anche con gli altri.

Ho portato qui il mio album da disegno perché ho sempre adorato disegnare ma, durante la malattia ho smesso. Non riuscivo a disegnare nulla, perché la malattia non me ne dava il tempo, dovevo solo camminare, leggevo mentre camminavo. Per anni non sono più riuscita a prendere in mano una matita o a dipingere. Solo ora, lentamente e con fatica, sto ricominciando ed è bellissimo,quando disegno raggiungo la pace dei sensi.

L’arte è un linguaggio non verbale che mi consente di raccontarmi, è fondamentale come lo è l’amicizia che considero più importante dell’amore, perché quando si ha una persona su cui contare si ha tutto.

Nonostante il rapporto con i miei genitori sia un po’ particolare, vorrei prima o poi riuscire a dire loro “Vi voglio bene”, e vorrei che anche loro lo riuscissero a dirmi“ti vogliamo bene”, perché nella mia famiglia non accade mai. Anche un forte abbraccio da parte loro mi aiuterebbe molto, rappresenterebbe una svolta nel nostro rapporto, il superamento del muro che abbiamo costruito insieme, difficilissimo da abbattere perché richiede lo sforzo di tutti.

Coi miei genitori abbiamo deciso che per comprendersi è necessario parlarsi, anche se la grande differenza di età complica un po’ le cose.

Sara

Sono Sara ho quasi 24 anni, vengo da Roma e ho sofferto di anoressia nervosa.

L’esordio della malattia l’ho avuto all’età di 9 anni, alla fine della 4^ elementare. E’ inziato banalmente dopo un espisodio di placche in gola, durante il quale non riuscivo a ingerire nulla ed ero dimagrita molto. Da quel momento riprendere ad alimentarmi normalmente è diventato sempre più difficile.

Secondo me però questo malessere esisteva già da prima, ero una bambina molto timida, quasi non parlavo perché mi vergognavo a stare in mezzo agli altri. A scuola ero una perfezionista, cercavo sempre di prendere il massimo dei voti, passavo intere giornate a studiare cosa che in 4^ elementare denota che qualcosa e non va.

Mia madre mi diceva di studiare di meno, di fare altre cose, di uscire con gli amici, di andare al parco perché a quell’età si fanno queste cose. Invece io spendevo tutte le mie energie nella scuola e nello studio, a casa non ho mai dato problemi sono sempre stata la “bambina perfetta”.

I miei genitori si sono separati quando avevo 5 anni, io ricordo poco, ma mi è stato riferito che da quando è successa questa cosa io ho cambiato completamente il carattere, prima ero una bambina solare, sempre sorridente che parlava con tutti, poi mi sono chiusa in me stessa e ho instaurato con mia madre un rapporto morboso. Non riuscivo a staccarmi da lei, trascorrevo la settimana con mia madre e mio fratello mentre i fine settimana avevano deciso che li avrei passati con mio padre. Io non ci volevo andare perché avevo quasi paura di staccarmi da mamma che era il mio porto sicuro. Questa cosa ha influito molto sulla malattia e l’ho superata solo ultimamente.

Dopo l’episodio delle placche ero diventata molto fredda, sembrava che non provassi più emozioni, in realtà tenevo tutto dentro, praticamente ”avevo chiuso la bocca in tutti i sensi”, non parlavo, non mangiavo e non bevevo, la mia bocca si era chiusa completamente.

Poi la situazione si è aggravata e mia madre ha deciso di ricoverarmi al Bambin Gesù di Roma nel reparto di neuropsichiatria infantile dove sono stata per tre mesi. In quel periodo stavo così male che i ricordi credo di averli rimossi, all’inizio mi operarono e mi alimentavano tramite catetere, purtroppo me lo fecero tenere per un tempo maggiore del dovuto ed ebbi la setticemia. E’ stato un periodo allucinante di semi-coma, ricordo che anche per andare in bagno dovevo chiedere alla mia compagna di stanza di chiamare l’infermiera. Mi levarono il catetere e misero il sondino che, all’epoca al Bambin Gesù era il secondo sondino che mettevano perché il mio disturbo ancora non si conosceva. Nel reparto ero l’unica bambina che soffriva di un disturbo alimentare per cui mi sono sempre sentita strana e mi vergognavo tantissimo, ero convinta che di questa cosa non si dovesse parlare. Infatti alle mie amichette non avevo detto nulla, si sapeva che Sara era in ospedale ma non se ne conosceva il motivo.

Temenvo tantissimo il giudizio degli altri, avevo già una dispercezione corporea, mi vedevo troppo grossa, troppo ingombrante e di questo mio disagio ne erano a conoscenza solo i medici e mia madre. Non volevo assolutamente che neppure mio fratello ,mio padre e i miei familiari venissero a conoscenza di questa cosa.

Ricordo con estremo affetto il reparto del Bambin Gesù perché avevo stretto dei legami molto forti con gli infermieri e con le ragazze e quando iniziai a stare meglio lo consideravo un po’ la mia casa ed essere stata dimessa dopo tre mesi per me era stato devastante, tanto che una volta uscita mia madre mi doveva riportare almeno un’oretta al giorno in reparto per rassicurarmi.

Dopo le dimissioni stavo molto meglio, dovevo finire la scuola, e anche durante il ricovero veniva un’insegnate in ospedale per farmi lezione per cui non ho perso l’anno scolastico. Il passaggio alle scuole medie è stato abbastanza tosto perché dopo un anno e mezzo che non frequentavo la scuola trovarsi in mezzo a tante persone nuove non è stato semplice. Nonostante tutto durante il periodo della scuola media e dei primi due anni di liceo il disturbo alimentare non mi ha dato particolari problemi.

In terza liceo ho avuto una ricaduta di tipo diverso, avevo iniziato a selezionare gli alimenti, mangiavo solo verdure e, considerato che in quel periodo frequentavo tutti i pomeriggi una scuola di danza e la mattina andavo a scuola, avevo una vita piuttosto attiva e zero energie. Sono dovute intervenire mia madre e la mia insegnante di danza dicendomi “tu in sala di danza non entri più perché non ti puoi sotenere così e finchè non stai meglio non ti posso far entrare”. A quel punto sono stata di nuovo ricoverata all’Umberto I di Roma in un reparto DCA e qui ho conosciuto altre persone che soffrivano del mio stesso disturbo, e, cosa mai accaduta, per la prima volta ho potuto condividere le mie difficoltà con altre persone. Ho seguito tutte le lezioni della IV liceo dall’ospedale, sono stata dimessa ma tra la IV^ e la V^ sono stata nuovamente ricoverata all’Umberto I.

Nonostante la mia situazione fosse grave, non ho mai avuto paura per la mia salute perché in quel periodo non mi rendevo conto del problema, ero convinta che gli altri esagerassero, nella mia testa ero convinta che Sara non avesse bisogno di mangiare per vivere, il cibo era quel “ di più” di cui Sara non aveva bisogno. Era la malattia che mi costringeva a non mangiare ma io non ne ero consapevole.

Ricordo un episodio di quando ero ricoverata al Bambin Gesù, un giorno mi guardai allo specchio e mi spaventai, non mi riconoscevo. Il mio rapporto con lo specchio è di amore e odio, ora sto intraprendendo un percorso di danza di tipo professionale, mi sto trasferendo a Milano per inseguire il mio sogno; in questo mestiere lo specchio è un obbligo perciò il mio rapporto con lui sta iniziando ad essere un po’ più sereno, ho imparato a sorridermi e mi aiuta tantissimo, mi dà modo di guardarmi in maniera diversa, guardo il viso e non solo il corpo, mi dà la possibilità di guardare Sara.

Lo scorso febbraio ho avuto un altro periodo molto difficile e il motivo principale era proprio lo specchio perché quando entravo in sala di danza dovevo sempre confrontarmi con esso e con le mie compagne, e con abiti aderenti, lì non c’era modo di sfuggire all’immagine corporea ma io soffrivo di dispercezione. In quel momento l’unico modo per uscirne è stato affidarmi alle persone che mi volevano bene ed anche parlare a me stessa ad alta voce, rassicurarmi e raccontare a me stessa le emozioni che provavo.

Penso che uno dei motivi principali per cui mi sono rifugiata nel disturbo alimentare è perché mi faceva paura provare certe emozioni, sentire certe cose proprio a livello corporeo. Quando inizi a dimagrire tanto e a non mangiare, il corpo in un certo senso si anestetizza e le emozioni non le senti più. In quest’ultimo periodo sono felice perché sto provando talmente tante emozioni che le percepisco a livello fisico, talvolta sono così forti che mi fanno star male , mi viene la nausa, il mal di testa. Probabilmente perchè prima non provavo nulla, non ero abituata. Tutte quelle cose come l’amicizia, l’amore, il gusto, un abbraccio mi scuotono e a volte inizio a piangere e questo è un modo per esternare finalmente le mie emozioni.

Ho anche capito che nel momento in cui mi fossilizzo su Sara a livello corporeo, quindi mi vedo grassa, lo faccio unicamente per non affrontare quelle emozioni che a livello psichico mi fanno stare male e mi spaventano un po’.

Ultimamente sto provando un’esplosione di emozioni, provo sensazioni differenti e contrastanti che prima temevo di provare e che adesso, così forti e tutte insieme mi sconvolgono.

Solo ora mi rendo conto che provare emozioni equivale a vivere, mi sento viva e sono felice come non lo sono mai stata. Sono anche contenta di piangere per un’emozione, che sia per l’amore verso una persona, per l’ansia o per la paura, piuttosto che piangere perché il peso è salito di cento grammi. L’emozione di un abbraccio è bellissima. Io se abbraccio qualcuno lo abbraccio veramente, capisco quando un abbraccio è sincero e quando è di circostanza. Devo dire che sono fortunata perché ricevo abbracci molto sinceri nella mia vita, e in questo periodo mi sento circondata da persone che mi vogliono bene, mi amano e sono consapevole che questo accade perché è uscita la vera Sara. La Sara che vuole vivere, che ama stare con gli altri, la Sara che prova emozioni e che le sa esternare e non la Sara che si chiude, che ha paura di tutto, di stare in mezzo alla gente, che pensa sempre al peso, al corpo e a quelle cose che alla fine non servono a nulla.

Convivo da tre anni con altre coinquiline e da circa un anno ogni mattina identifico l’emozione che provo, mi alzo, la condivido con loro e spesso loro mi prendono in giro scherzosamente. Prima non lo facevo ma questa cosa mi sta aiutando tanto. Ora so scindere Sara dalla malattia mentre prima eravamo un’unica cosa.

Ho sempre pensato che la malattia mi rendesse speciale, è una cosa che capita a molte persone che soffrono di DCA. Ti identifichi in lei, Sara è quella che se esce non deve mangiare la pizza, che deve contare le calorie, Sara deve avere quel peso. A me faceva quasi paura distaccarmi dalla malattia, farmi vedere per quello che ero realmente.

Ho imparato a non basarmi sulla bellezza esteriore, per me la bellezza è l’interscambio di energia tra persone, io penso di vivere grazie dell’energia degli altri e nel contempo vengo prosciugata dalla loro energia negativa e questa cosa la sento proprio a livello fisico.

L’arte nel mio cammino è stata tutto, ho iniziato dei corsi di recitazione subito dopo il primo ricovero, e da quel momento non mi sono mai staccata dal mondo dell’arte in generale. Ho fatto sette anni di recitazione, musical e danza fino a quando ho capito che la danza era la cosa che mi apparteneva maggiormente. Quest’ultima mi ha aiutato molto a riconoscere le emozioni e a stare a contatto con esse perché c’è molta emotività nella danza, si esprime l’emozione attraverso il corpo, prima lo facevo in maniera negativa ma ora è diverso.

Anche quando sono stata ricoverata un anno e mezzo a Villa Miralago non ho mai abbandonato la danza, a parte le attività di gruppo che facevamo come movimento creativo in danza terapia, avevo chiesto due volte a settimana di avere una sala per danzare e me l’hanno concesso perché questa cosa mi faceva stare bene.

Questa malattia mi ha insegnato che bisogna sempre pensare che dall’altra parte c’è una persona con un mondo dentro e nessuno sa quante difficoltà deve attraversare quella persona.

Penso che oltre a chi soffre di disturbi alimentari, tutti abbiano delle difficoltà nella vita e non mi sento diversa per il fatto di avere questo problema. Tutti affrontano i loro problemi e bisogna sempre avere un estremo rispetto e delicatezza verso le altre persone.

Non credo che si possa guarire del tutto da questa malattia, penso che questa sia una difficoltà che si porta avanti per la vita, devi solo imparare a conviverci e fare in modo che non ti impedisca di vivere, di inseguire i tuoi sogni e di affrontare le paure.

Quando si soffre di un disturbo alimentare è necessario chiedere aiuto perché credo che da soli non ce la si possa fare. I genitori sono quelle figure talmente coinvolte nella situazione che non sarebbero mai in grado di aiutarti, nonostante i miei genitori mi siano stati sempre vicini e siano stati sempre la mia ancora si salvezza.

Ai mei genitori vorrei dire grazie perché hanno vissuto dei periodi assurdi in questi 13 anni di alti e bassi, mi sento molto fortunata ad avere loro come punto di riferimento.

Ho portato con me le scarpette da danza perché rappresentano il mio sogno e perché la danza mi ha sempre fornito la motivazione per star bene e curare il mio corpo. Spesso c’è lo stereotipo della ballerina che tende alla magrezza, che non si cura del suo corpo, in realtà la danza ti insegna a prendertene cura, ti insegna che il corpo è il tuo strumento di lavoro e va curato con amore. La danza mi ha motivata a guarire, il mio obiettivo era quello e dicevo“ Sara se tu vuoi fare danza il tuo corpo deve star bene, devi sentire le tue emozioni”.

Antonella

Sono Antonella, la mamma di Sabrina che ha sofferto di anoressia nervosa. Per uscire da queste malattie ci vuole tempo e penso che comunque qualcosa rimanga. Questa è una malattia potente, io non pensavo che fosse così forte me ne sono resa conto a Niguarda quando ci spiegavano quello che succedeva nella testa di Sabrina, io non l’avrei mai immaginato. All’inizio quando mi sono accorta che qualcosa non andava mi arrabbiavo con lei, la offendevo, le dicevo che chi stava intorno a lei era cieco se non vedeva ciò che le stava succedendo e non glielo faceva notare. Invece le amiche facevano bene a non farglielo notare, ero io che stavo sbagliando perché le dicevo anche cose cattive: “ guarda come ti stai riducendo, non sei più tu, sei brutta”. Quando poi mi hanno spiegato la malattia mi sono resa conto che il mio non era il comportamento giusto, ho capito che dentro di lei c’era un’altra persona che le diceva di non ascoltarmi quando le dicevo di mangiare perché io volevo solo farla ingrassare, volevo rovinarle la vita, io ero il mostro. Fortunatamente ho avuto un grande aiuto da parte di alcune dottoresse e devo ammettere che anche Sabrina ce l’ha messa tutta, perché altre ragazze invece si sono lasciate andare fino a morire.

Sabrina è stata davvero forte:, inizialmente sembrava volesse arrendersi, poi ha tirato fuori tutta la sua volontà per combattere il mostro che c’era dentro di lei.

Il nostro rapporto era cambiato totalmente, io venivo trattata come uno straccio, mi cacciava dalla sua stanza, forse perché non riuscivo a dirle le cose giuste, le facevo notare tutte le cose che non andavano bene. In un secondo momento sono diventata troppo buona sbagliando nuovamente, qualsiasi cosa facessi non andava bene, ma allo stesso tempo lei mi cercava, dovevo continuamente starle accanto: passavo ore, serate in camera con lei. Le accarezzavo i piedi, le facevo le coccole, lei voleva questo. Poi improvvisamente mi diceva di andarmene e mi buttava fuori dalla camera.

Sono arrivata a vedere Sabrina che non mangiava più nulla, voleva distruggersi e stava distruggendo anche me. Mi stavo autodistruggendo perché non ero in grado di aiutarla e il tempo passava inesorabilmente.

All’inizio è stato devastante perché io la vedevo pian piano sparire: lei è sempre stata una bellissima ragazza ma si era trasformata e io non riconoscevo più e l’assurdo era che in tutto questo lei si vedeva bella così.

Forse abbiamo aspettato troppo tempo prima di cercare di recuperarla, ma mi sono resa conto che bene o male il percorso è così quasi per tutte; ho pensato che forse queste ragazze devono proprio toccare il fondo prima di poter risalire. Sabrina aveva raggiunto un peso di 36 chili, una magrezza spaventosa. Io ho avuto paura di perderla perché c’è stato un momento in cui lei non voleva farsi aiutare, io mi arrabbiai moltissimo perché non potevo lasciarla morire, dovevo fare qualcosa. L’ha aiutata molto sua sorella, perché quando io non riuscivo a gestire la situazione chiamavo mia figlia più grande e lei riusciva a dirle le cose giuste, è stata molto più brava di me. Forse perché lei è la sorella mentre io sono la mamma e le dinamiche sono differenti, comunque sia lei è riuscita ad aiutarla molto di più di quanto non fossi riuscita a farlo io.

Sabrina non voleva andare in ospedale ma la sorella è riuscita a convincerla che doveva uscire da questa situazione. Non ho mai capito bene se questa cosa loro ce l’hanno sempre avuta dentro, da quello che sono riuscita a capire questa cosa era già dentro di lei e poi è sopraggiunto qualcosa che ha scatenato il tutto.

Questa malattia distrugge tutto, soprattutto gli equilibri familiari: la nostra vita si era fermata. Noi eravamo abituati ad uscire anche con gli amici ma in quel periodo non si faceva più niente, in casa c’era sempre un clima negativo perché vedevamo nostra figlia in quelle condizioni e ci sentivamo morire, eravamo consapevoli che la stavamo perdendo.

Esiste anche un forte atteggiamento di giudizio nei confronti di queste malattie; ricordo che quando uscivamo insieme lei veniva osservata e questo mi faceva un male tremendo: in quei frangenti mi sono resa conto che forse questa cosa, prima, la facevo anch’io. Finchè non ci sei dentro non riesci a capire, sei bravo a giudicare senza sapere cosa sta succedendo in quella persona.

Sabrina all’inizio si isolava, rimaneva chiusa nella sua stanza e poi c’erano momenti in cui voleva scappare di casa. Quando ha iniziato il percorso invece è cambiata, ha ripreso il rapporto con me, io sono stata ricoverata un mese con lei a Niguarda, siamo state insieme e lei mi ha voluto accanto a sé. In quel momento non sapevo se era meglio che lei stesse da sola o se invece era preferibile che io le stessi vicino, ma la dottoressa ha deciso che dovevo rimanere con lei.

In quel periodo abbiamo avuto molti scontri, ma quando ha iniziato a tornare a casa per fare i day hospital abbiamo recuperato il nostro rapporto, si confidava di più e mi ha spiegato il suo malessere. Quando ha iniziato a prendere consapevolezza di essere malata ho capito che non era stata la mia Sabrina a parlarmi, era un’altra persona quella che mi diceva quelle brutte cose, quella che mi faceva piangere e mi faceva star male. Quando ha cominciato a star meglio chiedeva sempre di uscire, voleva sempre fare shopping e noi eravamo diventati i suoi schiavi pur di vederla star bene.

Questa malattia ha il controllo non solo su chi ne soffre ma anche su chi sta attorno; capitava la sera che mio marito tornasse tardi e stanco dal lavoro ma si doveva uscire per forza perché Sabrina voleva andare in quel determinato posto. Inizialmente non mi rendevo conto neppure di questo, da genitore quando tuo figlio sta male faresti qualsiasi cosa pur di vederlo star meglio, ma anche questo era sbagliato, me ne sono resa conto a Niguarda quando facevamo i gruppi con gli altri genitori. Io avrei dovuto essere come la dottoressa quando le diceva “ tu sei qui per guarire, se non vuoi farlo sei libera di andartene a casa”. Quando le diceva queste cose io stavo male invece quello era l’atteggiamento giusto, avrei dovuto essere anch’io più determinata, un po’ più dura. Era quello il comportamento corretto, quello che le faceva bene, invece io non ci riuscivo e così alimentavo la malattia. Poi pian piano in alcune cose ho imparato ad essere più rigida.

Questa malattia cambia loro ma cambia anche noi, ci dobbiamo reinventare. Non avrei mai immaginato di dover affrontare una cosa del genere e mi sono chiesta “perché è successo proprio a me?” Inizialmente senti una solitudine infinita, poi ti accorgi di quante persone sono nella tua stessa situazione e assieme a loro riesci a superare quel momento. Il confronto con gli altri ti da un grande supporto, ti aiuta.

All’inizio quando chiamavo in ospedale e raccontavo quello stava accadendo percepivo che la cosa non veniva presa in considerazione immediatamente, c’è voluto del tempo e ci siamo rivolti a tante strutture. Sabrina mi diceva che aveva bisogno di stare da sola, lontano da casa, voleva andare in una comunità specializzata in DCA. Io avevo provato a sentire qualche struttura ma non era stata accettata perché mi era stato detto che doveva essere l’ospedale a farne richiesta nel momento in cui ritenevano che ce ne fosse la necessità; e poi il pensiero di dovermi allontanare da mia figlia era devastante perché io volevo starle vicino, volevo viverla, non avrei voluto lasciarla sola.

Lei però sembrava contenta di questa cosa mentre io ero spaventata al pensiero di vederla rinchiusa in un posto dove c’era questo portone che si apriva solo in determinati momenti. Vivevo malissimo questa situazione, mi sono rivolta ad altri centri ma poi mi sono resa conto che il suo percorso doveva essere quello.

Spesso mi sono sentita sulle spalle un grande senso di colpa, ero certa di aver sbagliato qualcosa, di averla trascurata. A volte ci si fa travolgere da tantissime cose e ne trascuriamo altre più importanti, ed è sbagliato. Sovente pensiamo prima al lavoro, che naturalmente è importante e dimentichiamo tantissime altre cose che hanno la priorità. Quando sei mamma pensi al lavoro, alle faccende di casa e questo ti fa perdere di vista cose che poi non ritrovi più. Se la casa non brilla non è un problema, ma quando tua figlia cresce e hai perso quegli attimi non li puoi più rivivere e ti perdi la parte più bella.

Questa malattia mi ha insegnato a guardare la vita da una prospettiva diversa, a dare valore alle piccole cose, anche se devo ancora imparare molto e forse non riusciamo mai a capire veramente. Ti fermi e decidi di stravolgere la tua vita perché ti rendi conto che deve essere diversa, tuttora ci penso e mi rendo conto che c’è ancora qualcosa che deve essere cambiato, soprattutto per me.

Io pensavo di aver compreso questa malattia troppo tardi e di aver perso del tempo molto prezioso, mi facevo delle colpe. In ospedale mi hanno insegnato che colpe non ce ne dobbiamo dare e ho capito che quel tempo, apparentemente trascorso invano, era invece necessario.



Martina

Sono Martina, ho 22 anni e soffro di anoressia nervosa.

Sin da quando ero piccola ho avuto uno strano rapporto col mio corpo, un misto tra amore e odio. Ho praticato sempre molto sport, iniziando con la ginnastica artistica quando ero molto piccola, poi dopo un anno di nuoto sincronizzato a livello agonistico, ho ripreso nuovamente con la ginnastica artistica.

La percezione del mio corpo è quindi stata sempre molto profonda, e in questo “sentirlo molto presente” ho sempre avvertito anche il disagio. L’ho sempre sentito“troppo”, a volte troppo ingombrante anche se sono sempre stata normopeso.

Adesso ho capito di aver ereditato la corporatura di mio padre, che però non conosco perché mi ha abbandonata quando avevo un anno. E’ sparito completamente, sono cresciuta sentendomi dire da chi l’aveva conosciuto“Martina sei uguale a tuo padre”, peccato che lui non ci fosse. Non vivevo serenamente questa situazione, mi chiedevo:“ma perché mi devi dire questa cosa se mio padre non c’è”, avrei preferito evitare questi commenti.

Le parti del corpo che mi piacciono meno sono quelle che somigliano alle sue: le spalle, le braccia, la prestanza fisica. Da piccolina non indossavo canottiere perché le spalle mi creavano disagio.

Crescendo, dopo l’arrivo delle mestruazioni sono aumentata di peso, come è normale che sia, però da lì ho cominciato a non stare più bene nel mio corpo.

L’estate tra la quarta e la quinta liceo per me è stata devastante perché ho provato il desiderio di cambiare questo corpo e ho cominciato a restringere, eliminando i carboidrati. Non avevo ancora ben compreso la situazione. Nel corso del quinto anno di liceo mi sono focalizzata solo sulla maturità e non ho più pensato a me stessa. Mi sono sentita potente perché controllavo la fame, ero riuscita finalmente a seguire una dieta, ho provato la sensazione di riuscire a fare qualcosa.

Io sono una persona che filosofeggia tanto però in realtà non riesce mai a concretizzare. Questa malattia mi faceva sentire immensamente forte perché ottenevo dei risultati. Ho eliminato molti alimenti, ma non sono mai arrivata a fare lunghi digiuni.

Mangiavo poco, a mia madre raccontavo che desideravo avere un’alimentazione più sana per cui lei non si rendeva conto della situazione, anzi trovava normale questo atteggiamento.

Quell’anno facevo ginnastica acrobatica sui tappeti elastici e spesso quando finivo gli allenamenti mentivo dicendo che avevo mangiato fuori con gli amici e saltavo la cena. Mio zio però si era accorto che qualcosa non andava, diceva a mia madre “guarda che Martina non sta bene” ma mia madre rispondeva che volevo solo mangiare meglio, in maniera più sana.

Dopo la maturità ho lavorato come animatrice in un villaggio turistico, l’anoressia non mi pesava, era la mia nuova compagna, mi sentivo bene nel mio corpo magro ed ero convinta di poter vivere in quel modo.

Non mi sono mai isolata, non ho mai smesso di uscire con gli amici o di lavorare. Ho svolto diversi lavori tra cui la baby sitter in inglese ad un bambino di tre anni, che mi ha dato tanta gioia.

Avevo raggiunto un buon compromesso con la malattia. Ho sempre frequentato gli amici, cosa che mi ha salvata. Loro avevano notato il mio cambiamento fisico, anche se non lo comprendevano, perché in loro compagnia ero la solita Martina, serena e tranquilla; quando tornavo a casa sprofondavo nel baratro. Questa cosa mi ha un po’ ingannata perché mi ha illusa di poter riuscire a vivere anche in compagnia della malattia.

A 18 anni ho avuto una relazione con un uomo di 32 anni, una persona particolare con un vissuto altrettanto particolare di disagio: ex tossicodipendente e depresso. Io già soffrivo di anoressia, ho messo da parte me stessa, mi sono dimenticata di esistere, mi sono totalmente dedicata a lui, illusa di poterlo salvare. Si è rivelato una cattiva persona che mi ha fatto del male fisicamente e psichicamente. Ho faticato molto a chiudere il rapporto a causa dei miei problemi e perché lui non voleva lasciarmi andare.

Nei quattro mesi successivi mi ha fatto anche un po’di stalking, si presentava pure dove lavoravo. E’ stato violento in tutti i sensi. Era un’insegnante di danza, questa è stata l’unica nota positiva, di cui gli sono grata. Abbiamo fatto molti di spettacoli insieme, quella è stata l’unica cosa bella di quel rapporto malato.

Io ho sempre danzato fin da quando ero molto piccola, non ho mai frequentato scuole di danza ma ho sempre ascoltato musica e ballato. Io la musica la sento attraverso il corpo, per me la musica è danza.

Quando penso alla danza mi affiora alla mente il ricordo della nonna che soffriva di schizofrenia. Quando sono nata io stava già meglio, aveva superato la fase peggiore, però era depressa. Mia madre era molto giovane quando sono nata, abitavamo in Sicilia, al piano di sopra io e la mamma e al piano sotto vivevano i nonni con lo zio, io sono cresciuta in casa loro, i nonni mi hanno fatto da genitori. Quando la nonna stava male io ballavo per lei sul letto, quello era l’unico momento in cui lei reagiva, per il resto era priva di emozioni.

Ho realizzato di essere dipendente da questa malattia quando sono iniziate le abbuffate, vivevo assillata da questo pensiero che non mi permetteva di essere libera, costruivo le mie giornate sulla mia dipendenza. Ero dipendente e ossessionata da questo disturbo.

Ora capisco che libertà significa vivere senza inibizioni, senza contaminazioni, semplicemente vivere.

Solo qui a Villa Miralago ho compreso quanto fosse grande e ben costruita la mia gabbia; il problema è che non ho ancora trovato la chiave per aprire la porta. Sono qui da sette mesi e non sono ancora riuscita ad abbandonare il controllo, non è facile dopo quattro anni trascorsi a controllare tutto, sono veramente sfinita. Martina c’è ma fatica ancora a fidarsi di sé stessa.

Io non ho provato solitudine durante la malattia, perché mia mamma ad un certo punto si è resa conto del mio malessere, io ho chiesto aiuto e le imi ha compresa subito. Nel periodo delle abbuffate aveva notato che mancava del cibo e poi non mi vedeva messa bene.

Io mi sono sempre confrontata fisicamente con lei perché è diversa da me, spesso mi sono sentita a disagio quando uscivamo insieme o andavamo al mare perché lei era molto più magra di me. Anche il suo carattere è differente dal mio. Avevo eretto un muro tra di noi perché in un certo senso la vedevo come un’antagonista.

Adesso ho capito che il cibo è il mezzo che mi permette di sostentarmi e di compiere delle azioni, guardo ancora alcuni cibi con diffidenza ma, tendenzialmente, sto recuperando un buon rapporto col cibo. Con il corpo invece fatico ancora.

La bellezza la metterei sul piano della bontà d’animo, della generosità, dell’autenticità e al non nascondersi perché non serve a nulla. Perché noi siamo unici.

L’ultima immagine che ricordo di me è quella che ho visto allo specchio subito dopo aver vomitato. Questo specchio si trova vicino al wc, quando finivo di vomitare mi specchiavo: ero irriconoscibile.

Quando non ti riconosci più pensi “io mi sono persa da qualche parte”, non riesci più a vederti.

Qui non abbiamo specchi grandi, ci sono solo specchi che riflettono il viso. In questo percorso, quando guardo il mio volto faccio fatica, sento che c’è ancora un grande dolore dentro di me. A volte osservo i miei occhi e piango a dirotto perché è come se cercassi Martina in quell’immagine.

L’amore è la forza motrice della vita, è cura, sostegno, un abbraccio infinito. L’abbraccio è uno scambio di energia positiva.

Io ho portato le mie cuffie perché la musica, che ho sempre considerato una parte di me, mi ha salvato la vita; anche l’arte mi ha salvato la vita. La musica è un linguaggio universale che scatena emozioni positive.

Amo muovermi con la musica, dipingere con la musica, scrivere con la musica.

La Comunità è una scuola di vita, affrontarla è una fatica estrema, non è una passeggiata perché mi sento rivoltata come un calzino però insegna a vivere. Io non ho mai percepito così tanto amore, tanta dedizione come qua dentro. Mi solleva quando sono a terra, mi esorta ad andare avanti, spingendomi verso la guarigione. Sento il bisogno di rimanere qui, sento di essere nel posto giusto.

A mia madre vorrei dire che in alcuni momenti qualcosa non ha funzionato, forse qualche errore è stato commesso, ma la amo con tutto il cuore, apprezzo tantissimo tutto quello che ha fatto e continua a fare per me. È giunto però il momento di tagliare il cordone ombelicale che ci lega, in maniera sana, tranquilla.

Agli operatori vorrei dire che non ho mai visto tanta dedizione e tanto amore verso il lavoro. Sono umani, ma io li vedo come dei super eroi, perché ce la mettono tutta e so che in questo contesto non è per nulla semplice.

Tatiana

Sono Tatiana ho 19 anni. Penso che la mia malattia sia iniziata 13 anni fa quando è nata mia sorella con la sindrome di Down.

In quel momento ho iniziato a capire cos’era la vita anche se avevo solo 7 anni e ho cominciato a soffrire. Questa cosa me la sono sempre tenuta dentro, non ho mai mostrato di soffrire, di essere preoccupata per mia sorella, e neppure il disagio che spesso provavo accanto a lei.

Non ne ho mai parlato coi miei genitori perché non volevo creare loro altri problemi. Mi sentivo terribilmente in colpa, perché non accettare una sorella è una cosa bruttissima. Questo peso me lo sono portato dentro fino a due settimane fa quando ho avuto il coraggio di parlarne durante un colloquio familiare: è stato difficilissimo, ma per la prima volta ho manifestato ai miei genitori questa mia grande difficoltà.

Sono a Villa Miralago da 3 mesi e mezzo, prima di arrivare qui sono stata in altre comunità terapeutiche ma ogni volta sono sempre ricaduta nella malattia. Sembrava sempre che le cose andassero meglio invece poi ripiombavo in questo incubo.

Circa 5 anni fa ho iniziato ad avere un rapporto un po’ strano col cibo, non ancora patologico, mangiavo semplicemente un po’ di più. Soprattutto dopo la separazione dei miei genitori, che attualmente sono divorziati. Mangiavo in modo sregolato, disattento, sono aumentata di 5/6 chili durante l’estate, ma ero comunque normopeso. A settembre mi sono guardata allo specchio e ho pensato “devo cambiare, perché così non va”, vivevo male questa situazione, così ho cominciato una dieta; più che di dieta parlerei di un’alimentazione più sana. Una cosa tranquilla, il sabato sera uscivo a cena con gli amici, volevo semplicemente smaltire i chili che avevo preso.

Poi però mi sono resa conto che avevo una grande tristezza dentro, un vuoto che non sapevo come colmare. Durante la separazione dei miei genitori avevo sofferto molto, la loro non è stata una separazione consensuale, mio padre non voleva dividersi da mia madre. Mi ha usata per fare da tramite con lei, mi chiedeva di intercedere per evitare la separazione. Nel momento in cui mia madre ha preso la decisione definitiva mi sono sentita responsabile all’ennesima potenza perché avevo fallito.

Si sono separati il 24 giugno ed io ho iniziato a star male. Cercavo di convincermi che questa fosse la scelta più giusta, perché a casa c’era un clima sempre più teso, da anni ormai c’erano solo nervosismo e litigi. Già dall’anno precedente a casa non si parlava più, era calata l’indifferenza totale tra i miei genitori. Per assurdo i preferivo i litigi perché almeno ci sarebbe stato dialogo, invece regnava il silenzio.

Io giocavo a pallavolo e cercavo di andare agli allenamenti dalle 19 alle 22 in modo da non essere presente durante la cena, per non trovarmi a tavola con loro in un’atmosfera tesa e colma di odio che mi angosciava.

Il rifiuto del cibo per me è stato graduale, dopo quel primo periodo in cui avevo deciso di mangiare sano sono andata alla ricerca di una dieta fai da te. Avevo 15 anni e mezzo, facevo l’animatrice in un centro estivo per bambini, seguivo scrupolosamente questa dieta che prevedeva anche dei giorni di digiuno. Le prime volte che digiunavo mi sentivo veramente fortissima, pensavo: “ho una forza di volontà tale che riesco a non mangiare per un giorno intero”. Ero proprio fiera di me e mi sentivo felice. Non mi rendevo conto che stavo commettendo un grosso sbaglio, che mi ha avrebbe condotta a soffrire tantissimo.

Sono cominciati i primi NO alle cene e ai pranzi fuori con gli amici e ho iniziato a chiudermi in me stessa. Un giorno in cui credevo di essere sola nella nuova casa, sdraiata sul mio letto, ho iniziato a piangere tanto, fiumi di lacrime. A casa però c’era mia madre che sentendo questo pianto disperato è venuta a cercarmi per chiedermi cos’era accaduto. Per la prima volta ho avuto il coraggio di dirle che non ce la facevo più, che ero stremata, che non mi piacevo esternamente ed interiormente, che ero brutta, antipatica, inutile, una fallita.

Mi sono sfogata con lei, finalmente riuscivo a tirar fuori questo disagio interiore. In quel momento la situazione non era così grave da dover chiedere aiuto.

Tutto è precipitato dopo un episodio ben preciso durante le feste di Natale del 2018. Eravamo a casa di amici a giocare a carte, come spesso accade durante le feste, da mesi ormai seguivo quella dieta rigida e avevo perso peso. Davanti ai dolci natalizi ho pensato “oddio che meraviglia questi dolci” e ne ho mangiato una quantità spropositata; a casa ho vomitato tutto e quella è stata la prima volta che ho vomitato.

Da lì è iniziato il vero tracollo, ho preso l’abitudine di mangiare solo verdura. Andavo in palestra, facevo teatro, a scuola studiavo tantissimo e a casa non ci stavo quasi mai. Mia madre mi preparava i pasti e io li buttavo, la colazione solitamente la facevo da sola quindi restringevo ogni giorno di più fino a non mangiare più niente, il tutto di nascosto da mia madre. Lei spesso mi invitava a mangiare di più perché stavo dimagrendo, ma non si è mai resa conto fino in fondo della situazione.

Il 21 febbraio, giorno del mio compleanno, avevo organizzato un festeggiamento in pizzeria con le amiche, e mia madre era molto contenta perché almeno avrei mangiato qualcosa. Avevo saltato il pranzo ed ero andata in palestra, proprio perché sapevo che la sera avevo questa cena. Poi però mi sono sentita molto in colpa per aver mangiato quella pizza. Dopo la festa del mio compleanno un’amica mi ha dato un biglietto da visita di un centro per disturbi alimentari, e io le ho detto “guarda Martina che a me non serve”. Non avevo mai pensato ai disturbi alimentari, la mia condizione per me era decisamente normale.

Andavo in palestra tutti i giorni, anche la domenica, non andavo più a mangiare dai miei nonni. Era diventata una vita insostenibile, pensavo solo al cibo, al peso, a contare ogni singola caloria. Di ogni cosa che ingerivo, e tutt’ora lo faccio, dovevo sapere precisamente l’apporto calorico, ero molto scrupolosa.

Sono passati altri due mesi e stavo malissimo, concentravo tutte le mie energie sullo studio e il rendimento era ottimo, ma non avevo più nemmeno le forze per salire le scale.

A scuola i miei compagni e i professori si erano accorti di questa difficoltà, non i miei genitori, che continuavano ad accompagnarmi in palestra. Finché mi sono decisa a consegnare a mia madre il biglietto che mi aveva dato Martina, dicendole “mamma, io non ce la faccio più a vivere”.

Lei ha contattato una psicologa alla quale però raccontavo solo quello che mi faceva comodo, in genere cavolate; alla fine questa dottoressa mi ha consigliato un centro per la cura dei disturbi alimentari dove mi è stata diagnosticata l’anoressia nervosa.

Ho Intrapreso un percorso ma facevo di testa mia tanto che, a ottobre, mi hanno ricoverata 3 mesi in Neuropsichiatria infantile, perché il mio peso era decisamente troppo basso. Mia madre doveva rimanere con me 24 ore al giorno perché ero minorenne. Ha dovuto lasciare anche il lavoro in quel periodo.

Crisi continue, pianti, ad ogni crisi mi facevano una flebo. Io mi vedevo enorme e anche adesso non voglio prendere peso perché credo non sia necessario, anzi così come sono ora mi sembra già troppo.

Vedo il cibo solo come una cosa che fa ingrassare, non riesco a vederlo come una fonte di vita.

Vorrei convincermi che la bellezza non risiede nell’esteriorità, ma faccio molta fatica.

Durante la malattia mi sono sentita sola, ma soprattutto incompresa dai miei genitori che non l’accettavano, come del resto non l’accettavo io. Nell’ultimo anno hanno iniziato un po’ a capire che forse non stavo bene.

Dopo il centro diurno e il ricovero in psichiatria, sono stata per un anno in una struttura a Bologna.

Ho scelto l’anoressia come compagna di viaggio, mi lascio controllare la lei.

Nonostante sappia quanto mi toglie, sono terribilmente attratta da lei perché mi fa sentire più sicura, mi solleva da tante responsabilità che non voglio assumere.

Razionalmente so che è sbagliato, ma non voglio staccarmi da lei.

Io sono sempre stata una persona molto ambiziosa, testarda, determinata e molto estroversa. Con queste caratteristiche ho alimentato la mia malattia che, mi dà la sensazione di stare bene.

Da quando sto male non provo più alcun sentimento, non mi sento nemmeno attratta dai ragazzi, sono negativa anche nei confronti della mia famiglia. Soprattutto verso mio padre che è stato completamente assente; si è legato un po’ a me quando mi sono ammalata. Il mio disturbo mi ha aiutata ad avere quello che non avevo. L’esempio che conferma la veridicità della mia affermazione sta nel fatto che, al mio rientro dal ricovero nella precedente comunità, nuovamente normopeso, mio padre, convinto che io stessi bene, ha iniziato ad allentare i nostri rapporti, ha smesso di chiamarmi tutte le sere per chiedere come stavo, per poi ricominciare nel momento in cui ho avuto una ricaduta. Questa cosa mi ha terribilmente spaventata, ho pensato “allora questa malattia mi serve per avere il suo amore”.

Io mi chiedo continuamente “perché a me?”. Non riesco più a guardare avanti, ci vuole una forza incredibile per contrastare quello che 24 ore su 24 la tua mente malata di dice di fare.

Qui in comunità, grazie alla certezza di avere giorno e notte qualcuno a cui aggrapparmi nei momenti di difficoltà, riesco a consumare quattro pasti al giorno. Mentre, in occasione di un secondo ricovero in psichiatria sono stata nutrita col sondino.

Mi piacerebbe svegliarmi e scoprire che tutto questo è stato solo un terribile incubo, invece la mattina mi sveglio con la consapevolezza che sto sprecando i miei anni migliori e che ho ancora bisogno di questo sintomo per avere controllo su di me.

Ho portato qui il mio diario dove la sera scrivo i miei pensieri, le mie sensazioni, ciò che mi ha fatto stare male e le poche volte in cui sono stata un po’ meno male. Faccio il resoconto della giornata e mi rendo conto che ogni giorno c’è qualcosa che mi fa soffrire.


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